HAPAX

HAPAX

           “E la mia bocca finché non si separa dalla tua ripete e ricorda: so di un fiume”

Luar ci accolse nella sua casa di pouf e incenso ai mirtilli rossi, nella baia a sud di Lisbona.

“Ostinata”, era stata la premessa del signor Goodman quando mi propose l’ingaggio da interprete. Lui veniva da Chicago, disse che non aveva tempo per imparare il portoghese, che il tempo andava speso solo per scovare talenti. E decisamente aveva un fiuto da bracco in questo, così lo faceva di mestiere, oggi li chiamano produttori discografici.

Il signor Goodman voleva che Luar incidesse.

“Ostinata”.

Luar era l’ultima della sua generazione che custodiva l’arte del Fado, il canto della saudade, la parola più intraducibile del mondo.

“Non è malinconia, è destino. Il destino di chi Sente, un sentire che è  amplificatore con il jack conficcato nel cuore, un sentire di chi è nato in faccia all’ oceano.” Questo Luar aveva di speciale: suonava solo all’aperto, con il sottofondo delle onde, dei gabbiani e di un leccio che si affacciava sul mare.

“Mi piace accordare voce e chitarra sul diapason della sua corteccia: mi ha insegnato che il rumore delle dita quando cambiano accordo è un fiato metallico, è il respiro delle corde.

Mi ha insegnato che i dettagli, come il frusciare della puntina sull’oceano di un vinile, arrivano come una pioggia dentro.”

Il signor Goodman mi fece rispondere che nessuno fa più caso a quei dettagli, che oramai paiono ruggine che sporca il suono e disturba i timpani ormai raffinati sull’alta definizione. Oramai, che è possibile sottrarre persino l’aria in sede di registrazione, e resta null’altro che onde sonore.

“No, dico che no. Dico che senza vento non ci stanno onde. Dico che la musica non è anaerobica, che è vela che ha bisogno di vento per andare. Il rumore deve rimanere con, non può essere sostituito dal silenzio in vitro.

Digitale è una dimensione che non mi appartiene. I tacchi del tempo devono fare rumore nel suo passaggio. ”

Il signor Goodman disse che sarebbe impossibile incidere a queste condizioni.

“Oh, ma io non ho nessuna intenzione di registrare.”

Me lo feci ripetere due volte prima di tradurre.

“Non registrerò.”

Lo ridisse sorridendo, gli occhi color grano.

Ci portò sulla spiaggia, c’era un vento maldestro e la salsedine ci pizzicava le guance. Luar si voltò e ci indicò un leccio sulla soglia di un dirupo a picco sul mare.

“Alla coppia che abitava qui prima di me una volta chiesi se avessero mai visto l’albero fiorire. La loro risposta fu: quale albero?

Vedete, è questo. L’abitudine rende miopi agli odori, ai rumori, ai colori. E’ usura di significato, appiattisce all’insignificante. Allo stesso modo non si coglie la musica random del fuori e la si scambia per disturbo o peggio, per silenzio. Quest’albero è niente eppure c’é qualcosa di splendido- disse.

E’ la sua ostinazione.

A restare.

Che non se ne fa niente nessuno di un albero lì sul ciglio del fosso. Che non c’è niente lì, solo fango e roccia, eppure si è tirato su a forza di mare.

Incidere significa dare al riproducibile, destinare la musica al loop come un vecchio ritornello annidato in testa dove tutto diviene automatico.  Non si fa più caso alle cose quando si posa su di loro la pellicola dell’abitudine.

Le cose, a furia di essere viste, diventano invisibili.

A furia di essere udite diventano inudibili.

A furia di essere dette diventano insignificanti.

Io volevo salvare il significato di quell’albero, come ora desidero salvare il significato della musica.

A chi viene -solo per una volta- ad ascoltarmi provo a insegnare l’arte di perdere: L’arte di aprirsi alle percezioni senza ansia di trattenerle e di accettare quel giorno in cui la memoria ne sbiadirà la melodia, i profumi e i volti, ma non la sensazione.

Incidere non è àncora di eternità, ma vuoto a perdere di ancòra.

Significare è stillarsi nell’altro ma non all’ infinito, non siamo mare noi, Prima o poi dimenticheremo le parole dette e le cose fatte, eppure conserveremo una goccia improsciugabile del come ci hanno fatto sentire.

Una goccia.

Quest’albero come un orologio analogico ha scandito il mio tempo, sul suo tronco ho inciso maree di volte perchè senza di lui la mia musica è senza linfa; Quest’albero é una conchiglia che dentro ha custodito l’eco della mancanza.”

Non sapevo come riassumere, come trasportare tutto questo. Come un imbecille, d’impulso, ho semplicemente riferito un secco “she refuses.”

“She, she she…” ha incalzato Luar: “Ci avete cucito su misura                              l’ onomatopea dello sh che zittisce l’altro. Ci avete rese soggette ammutolite in partenza. Ma non sapevate, non v’importava sapere, non l’avete scritto da nessuna parte nella vostra storia che noi siamo casse armoniche, noi distilliamo note buone dal rumore. Il canto inizia con noi, ha la stessa radice del verbo tessere, Cano. Il suo ritmo noi lo abbiamo scavato dal tu-tum delle spole sui telai,i nostri polsi per primi hanno imparato a tenere il tempo, per non ingarbugliare il filo.

Poi voi ci avete seguite, forse superate, ma vedete, noi non stavamo gareggiando. La chitarra l’abbiamo impugnata non da menestrelle, ma da mogli, fidanzate, amanti che cercavano di sottrarre il vostro volto di marinai all’oblio, durante i vostri interminabili viaggi al largo.

Noi attendevamo davanti al libro del mare che il vento sfogliasse le onde, come pagine, del vostro destino. E per non morire d’attesa abbiamo cantato. Afasia, asindeto, assillo,assenza era tutto ciò che ci restituivate in cambio. A vent’anni Kafka scriveva che la vera arma letale di quelle sirene che incontrò Ulisse non fosse stato il canto, ma il silenzio. Dal silenzio non ci si può difendere. Al silenzio non si può controbattere. E’ sasso che vince contro forbici”.

Il signor Goodman non disse nulla, gli occhi bassi di chi sentiva che aveva fallito, che avevo fallito, che aveva fallito la possibilità di donare questa donna al mondo, aveva vinto il silenzio insieme a qualcos’altro. E in silenzio rimanemmo, un silenzio di sale, finché non andammo via, così, senza saper dire più niente di niente.

Il tramonto sull’ Atlantico.

Del viaggio di ritorno ricorderò quel tramonto.

“Lo vedi questo cielo, ragazzo? Questo sarebbe il cielo perfetto per un bending di Jhon Frusciante”.

Era un tipo del genere, il signor Goodman, che anzichè libri citava assoli, leggeva il mondo in chiave di sol. Abbassò il finestrino e lasciò a briglie sciolte le mani, cavalcando con i polsi la schiena delle montagne. Aveva lo sguardo di chi sfogliava le pagine dei pensieri con gli occhi, in filigrana sull’autostrada. Pensava alle certezze, forse. Al materiale di cui sono fatte,  di certo più friabile di quanto si crede. Al senso che non avrebbe più  avuto continuare a sbandierare un credo che era stato colpito e affondato. Poi, fece un gesto semplice.

Lasciò la sua 24 ore sul sedile posteriore e si incamminò verso ovest.

“torno a piedi”, fu l’ultima cosa che mi disse.

                                                                                     Chiara De Pasquale

Rispondi