di Marianna L. di Lucia
Quando Dostoevskij, in visita a Basilea, vide il “Cristo Morto” di Hans Holbein il giovane ne fu talmente impressionato da indurre la moglie a credere che stesse per avere uno dei suoi frequenti attacchi epilettici. Quell’immagine così cruda, così profondamente umana, si sarebbe radicata in profondità nell’immaginario dello scrittore russo, tanto da indurlo a imperniare su quel quadro uno dei suoi capolavori “L’idiota”. Il quadro, in effetti, ben si prestava alla riflessione sulla dialettica tra umanità e divinità di Cristo presente nell’opera: per un un religioso come Dostoevskij può Gesù essere solamente una figura storica? Può esistere nel male della società una persona talmente buona da essere assimilata a Cristo? La risposta, dopo aver seguito le vicende del messianico principe Myskin, sembra essere negativa. Al termine del romanzo sembra dominare la figura del Cristo Morto di Holbein, fantasma che aleggia per tutto il romanzo.
Verso la metà del XV secolo si nota nella pittura occidentale una svolta culturale che prende il nome di umanesimo dell’epoca rinascimentale, la cultura diventa uomo-centrica. I quadri dipinti in questo periodo diventano specchio dell’uomo e dunque pongono con forza l’accento sull’aspetto puramente umano di Gesù, eliminando completamente quello divino. Questo è ciò che fa Hans Holbein con il suo quadro del 1521 “Il Cristo morto”, che dipinse avendo a modello il corpo di un ebreo annegato.
E Dostoevskij descrive perfettamente l’iconografia del quadro attraverso le parole del giovane Hippolyt, una sorta di suo portavoce nel romanzo “L’idiota”:
“Quel viso non è stato affatto risparmiato, esso è esattamente come quello di un cadavere che ha subito tali torture. […] Nel quadro questo viso è tumefatto dai colpi, gonfio, ricoperto di lividi terribili, sanguinanti, gli occhi sono spalancati, le pupille sono storte, il bianco degli occhi luccica di un riflesso vitreo, cadaverico.” Il corpo dipinto da Holbein ci restituisce tutta la drammaticità e l’umanità della morte, è un corpo tumefatto e illividito, sulle mani e i piedi anneriti vi sono i segni delle stigmate e per tutto il corpo sono sparse macchie ipostatiche nerastre. Il colore cinereo è quello dell’uomo inesorabilmente morto e la smorfia sembra aver conservato quell’ultimo sofferente grido di abbandono: il quadro di Holbein è la scandalosa rappresentazione della morte di Cristo-uomo davanti alla quale non c’è alcuna speranza di resurrezione della divinità. Quegli stessi segni affiorano non sul corpo, ma nella psicologia del principe Myskin di Dostoevskij, figura messianica che non riesce ad adempiere al suo compito perché vive in una società corrotta che gli impedisce di esercitare la sua totale bontà ed è quindi destinato alla tara genetica. Sulla tridimensionalità e le tumefazioni del corpo gioca anche il film di Alessio Cremonini “Sulla mia pelle”, in cui assistiamo ad una rappresentazione lucida e inesorabile , profondamente realistica, del corpo vero di Stefano Cucchi. Le luci dell’obitorio scolpiscono quel viso, che etimologicamente manifesta la verità ostinatamente e malamente mascherata. C’è un’identificazione tra il corpo del Cristo di Holbein imprigionato nel suo stretto e basso basamento, che non presenta una linea di fuga verso il cielo e dunque alcuna speranza di Resurrezione, e quello di Cucchi rinchiuso dietro un freddo filtro di vetro, beffato dalla giustizia, in quanto privato dei propri diritti dalle stesse istituzioni che avrebbero dovuto proteggerlo. Inizialmente, almeno in apparenza, sono completamente sole le due figure al di là del vetro: il Cristo di Holbein, posizionato al di sopra degli spettatori e allontanato da qualsiasi sguardo di pietà umana e anche il corpo ancora vivo di Cucchi, cui viene negato ogni incontro con i suoi affetti e anche l’ultimo briciolo di humanitas con il rifiuto, quando è in punto di morte, di un ultimo ristoro per il suo corpo martoriato: un pezzo di cioccolata.
L’interpretazione data al quadro in Russia, per oltre due secoli e a partire da Karamazin, è quella di un uomo naturalmente morto. Dice sempre Hippolyt:
“Lo strano è che quando guardi quel corpo straziato, ti viene una domanda curiosa e particolare: se era quello il corpo (e doveva essere proprio così) che videro i suoi discepoli, soprattutto i suoi futuri apostoli, le donne che lo avevano seguito e assistito vicino alla croce, che credevano in lui e lo adoravano, come potevano essi credere, guardando un cadavere ridotto così, che quel martire sarebbe risorto?” Eppure, quegli stessi uomini e donne, pur nella loro iniziale delusione dinanzi al disfacimento tutto umano di quello che credevano il Figlio di Dio, non hanno smesso di credere dinanzi a quelle tumefazioni e a quel livore e sono rimasti ripagati.
Ciò che secondo la critica russa Kasatkina conferisce un’aura di icona, e non di semplice rappresentazione di un evento storico e tutto umano, alla rappresentazione di Holbein e trasmette la speranza in una potenziale resurrezione è proprio la presenza di testimoni; l’aspetto divino è conferito dalla speranza dei credenti e i testimoni del quadro di Holbein siamo proprio noi spettatori, noi esseri umani attraversati dal dubbio eppure speranzosi.
Anche il riscatto della figura di Stefano nella giustizia, reso possibile dalla lotta della sorella Ilaria, è ottenuto mediante la testimonianza e la diffusione delle immagini sferzanti e reali di quel corpo macilento e martoriato. Quello stesso corpo che, in apparenza lasciato solo, era in realtà costantemente cercato e difeso dalla famiglia che si trovava al di là delle sbarre; quel corpo di fronte al quale gli stessi familiari sono rimasti inebetiti e svuotati di ogni speranza e hanno potuto accarezzare, un’ultima volta, soltanto attraverso il freddo filtro di un vetro. Eppure, quella flebile e gelida carezza di vetro ha permesso loro di raccogliere un ultimo pezzo del loro amato figlio e fratello, un gesto amorevole che diventa strumento di raccolta di una testimonianza: e proprio la diffusione di questa testimonianza -la circolazione capillare nelle piazze, tra le pagine dei giornali e dei telegiornali, fino ad arrivare agli schermi televisivi e cinematografici di questa immagine cruda e terribilmente umana come il quadro di Holbein- ha permesso la resurrezione almeno giuridica di Stefano: la riabilitazione della sua figura e il suo riscatto di fronte alla violenza subita, fino a farlo diventare il simbolo di tutti i deboli sopraffatti da una macchina giuridica violenta e sopraffattrice, esattamente come accade al principe Myskin che acquisisce sulla propria mente martoriata tutti i segni della corruzione della società di cui fa parte.