Alla stazione dell’amore perduto

Alla stazione dell’amore perduto

Viaggio in treno da anni, annotando su vecchio taccuino tracce dell’umanità sgangherata che incontro sui convogli. Scrivo per salvare attimi destinati all’oblio. Scrivo per costringere in una stessa pagina gli opposti, l’inconciliabile e l’attesa. 

I treni stessi sono pagine di libro: ogni scompartimento è un capitolo a sé che ritrova il suo senso intrecciandosi agli altri. Saltare su un convoglio è lasciarsi alle spalle un mondo, incontrarne un altro e vederne, dal finestrino, un altro ancora. La stazione, poi, un mondo assurdo. Ospita attese, risuona di imprecazioni, rispecchia le manie e le imperfezioni umane. 

I treni sono il palcoscenico quotidiano di novelli attori, astuti mercanti di parole e poveri mendicanti d’attenzione. Faccio parte di quel circo anch’io, con la mia storia e il mio carico di dolore. 

Oggi va in scena l’atto unico del mio dramma.

Non ricordo neppure più quante lacrime ho versato l’altra notte. Ho creduto di impazzire. L’anima è scoppiata in singulti vertiginosi, fino a farmi perdere i sensi. Pensieri si affastellano nella mente. Si rincorrono parole, immagini, grida. Cosa resta di noi? Non lo so. Non so più chi sono. Non so più in cosa ho creduto, cosa ho amato e cosa ho vissuto. Sembrava felicità. Aveva il sapore del miele, il profumo di vaniglia, la luce del mattino. Sapeva di buono. Sapeva di noi. 

Forse è stato solo un brutto sogno. Non è possibile agguantare la felicità e vederla, l’attimo dopo, scivolare tra le dita come fosse sabbia. Ho paura di riaprire gli occhi. Ho paura di conoscere la verità. Fingo di dormire ancora un po’. Quest’attesa mi protegge. 

Drin drin drin.

Ho il volto spiaccicato nel cuscino, le coperte tirate fin sulla testa. Trovo a stento la forza di allungare un braccio fuori e spegnere quell’ordigno nucleare sul comò.

“Devo correre in stazione” – è il primo pensiero, quasi prepotente, quasi a scacciare quell’amara verità che non voglio ammettere.

“Devo correre, il treno non aspetta me!”

Quanti treni ho visto passare, quante mani aggrapparsi ad appigli di fortuna! Quanti volti assorti, nasi incollati ai finestrini, capi penzolanti, bocche ronfanti! Quante frenate brusche, escursioni termiche, palpitazioni! Eppure, nulla in confronto ai treni che ho visto passare via veloci, persi nell’indecisione di troppi se e ma. Sempre lì a pensare a cosa fosse giusto e cosa no. Sempre lì a calibrare, soppesare, appesantire. Sempre io, troppo io, maledettamente io. Io e le mie paure; io e le mie ossessioni; io e la mia maniacale perfezione. Io, che non sapevo ascoltare il cuore e avevo dimenticato persino il sapore della felicità! 

Ma sono stata mai felice? 

Entro in stazione, chiedo un biglietto. 

Destinazione? Vorrei dire te. Non posso. 

Salgo sul treno, posto accanto al finestrino, senso di marcia: voglio guardare ciò che ho davanti e non ciò che lascio indietro. 

Scorrono campagne, vecchi pali telegrafici, campi rom, discariche abusive, case sgangherate, vite rubate. Quel vetro mi separa dal mondo. In quel vetro vedo riflessa anche me. Sono parte di quel mondo che vedo scorrere e non riesco ad afferrare, a stringere, a catturare. Ma cos’è che davvero vedo: me stessa o l’idea che ho di me? 

Prima di conoscerti ero peso, macerie, corazza di stenti, groviglio di paure; eppure, apparivo razionale, severa, disciplinata. Davo l’immagine di una fortezza incrollabile, un castello inespugnabile. Ero quel che volevo essere. Ero una vecchia locomotiva a vapore, ancorata ai suoi suoni, ai suoi riti. Non volevo cedere alla velocità della modernizzazione. Volevo quel mondo bianco e nero di fumi indistinti, donne romantiche, uomini burberi avvolti da nebbie fitte. Poi, sei arrivato tu, hai portato colori, sfumature, sorrisi e … leggerezza. Così diversi, eppure, così simili. 

Le nostre vite correvano su binari paralleli. La coincidenza non era scontata. Ci siamo incrociati nel momento esatto in cui due treni cominciano a rallentare nei pressi di una stazione, perché il destino vorrebbe farli incontrare nello stesso luogo e nello stesso attimo, fino a scontrarsi, accartocciarsi l’un sull’altro, intrecciando vagoni, carrozze e corazze. I treni, però, si sa, sono previdenti. Temono lo scontro, temono la coincidenza d’anime e si arrestano un attimo prima, giocano al passi prima tu / passo prima io e così, si sfiorano soltanto. Un brivido li percorre quando sono vicinissimi: è un sussulto d’amore, un fremito che corre lungo la loro schiena di vagoni.Quel fremito l’ho sentito anch’io, quando t’ho visto la prima volta. Quel brivido, ora, è nostalgia d’amore.

T’ho perduto come si perdono i rapidi del mattino, per un soffio, una distrazione, un’ingenua confessione. Dubbi, paure, esitazioni: questione di attimi e il rapido parte. Resti a un passo dalla linea gialla che demarca la soglia di sicurezza oltre la quale rischi di cadere nel baratro. Indietro hai lasciato abbracci, mani intrecciate, sorrisi a fior di labbra; davanti hai il vuoto; nel mezzo, i ricordi. 

Senza più certezze, cominci un nuovo viaggio.

Poggio la testa al finestrino e guardo fuori. Sento il sole sul viso, il vento mi scompiglia i capelli. Sono viva. Spunta persino un sorriso. L’ultimo ricordo di te è in una stazione. 

Ero venuta senza preavviso; volevo solo starti accanto, senza il peso delle parole. Abbiamo passeggiato per ore senza neppure riuscire a guardarci negli occhi, a sfiorarci le mani. Sembravamo sospesi in un limbo. Quando mi hai riaccompagnata a prendere il treno, ho sperato fino all’ultimo istante in una tua parola, ma ho sentito solo il fischio del treno in arrivo, il chiudersi delle porte dietro le mie spalle e tutto il peso di donna sprofondare su un lurido sedile. 

Fuori era buio; dentro, tempesta. 

Al capolinea sono scesa dal treno e ho cominciato a camminare sulle rotaie. Ciottoli instabili facevano vacillare i miei passi, ma non i pensieri. Perché i binari continuano a corrersi di fianco, ostinandosi a non incontrarsi mai? Incrociare le rotaie non sarebbe poi così male.

L’ho capita solo col tempo quell’ostinazione, quando uno strano rituale ha cominciato a scandire i miei giorni. Ogni domenica pomeriggio, alla stessa ora, prendo un treno e scendo alla fermata dell’abbandono. Vedo treni arrivare, fermarsi e ripartire; passeggeri scendere stanchi o sorridenti; bambini rincorrersi per chi arriva per primo alle scale mobili. Vedo tutti passare, ma mai te arrivare. Eppure, tornerò lì anche domani. Tornerò ogni domenica, tornerò finché le gambe mi sorreggeranno e il cuore sosterrà questa sciocca farsa. Tornerò, perché nell’attesa ritrovo te, ma, soprattutto, ritrovo la parte migliore di me. 

Giuseppina Amalia Spampanato

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