La morte così è vinta

Un pick-up, dei fari, risate come nulla fosse, come occhi inquisitori che conosco, svelano il mio segreto (dietro a un sorriso).

Non è da tutti aspettare la notte, eppure sono qui, nel bel mezzo di marzo, in un bosco che puzza di umido, fa caldo e freddo, e le lacrime le asciuga il vento gelido. Il terreno è umido e ho i piedi bagnati (in un mare senza vita, come la sua saliva); provo a sollevare le dita intorpidite che lentamente mi fanno perdere coscienza di me. Mi guardo intorno e tutti sono come me, identici in ogni singolo aspetto.

Produzioni seriali di alberi di Natale.

Ancora una volta non sono nessuno, ma da qui posso guardare il sole con gli occhi spalancati e non accecarmi. Se davvero ora sorrido al sole e respiro nell’aria, vivo come chi ha il sapore di una scelta giusta, anche se inquini ancora il mio ricordo.

Come quando senza bussare violavi la mia intimità. Era impossibile sfuggirti, sapevo che saresti ritornato come ogni volta, come portato da un vento in tempesta. Non c’è ragione che tenga, i mesi passano, e sono già nove, il futuro tende il suo ghigno verso di me, dietro a un’affabile o innocuo sorriso (inebetito dal vino).

Risate. Lo stereo manda in loop canzoni natalizie, tutti sono felici, è proprio un’allegra gita di famiglia. Si avvicinano verso di me, mi scrutano, mi giudicano, forse ora gli vado bene; iniziano a tagliare maldestramente, prima da sopra, poi da sotto.

Non sono piantato bene, sarebbe facile portarmi via, eppure iniziano a tagliare…

Resina e pioggia come sangue scorrevano, chiunque avrebbe provato ribrezzo. Mentre mi percuotevano, un po’ di terreno franava dalle radici dell’albero e vedevo la terra cedere sotto i miei piedi. Continuava a colpirmi ripetutamente vinto dall’ira. Come sempre, come in passato. Più provavo a spostare quella bestia che di umano aveva solo le mani, più mi accorgevo di non possedere alcuna forza contro la bestia detentrice dei miei ricordi.

Volevo essere, per una volta, un torero, ma la paura m’immobilizzava, quasi fossi di legno.

Vidi qualcosa nei suoi occhi che nessuno avrebbe voluto vedere – che ogni vista ne sarebbe schiva. Sembrava una bestia malata di bestialità. Le ferite bruciavano come soli e mi arresi alla sua forza.

Se solo la mia pelle fosse stata di un materiale più resistente, dura come la corteccia.

«Forza! Tira, ci siamo quasi. Passami il coltello, ancora un ramo, ancora una radice e poi lo carichiamo in macchina».

Il pick up si dirige furtivo verso casa, allontanandosi dalla foresta. La strada è dissestata, ci sono buche ovunque e gli ammortizzatori sono messi a dura prova.

Bum, turutum… ahia… cazzo, strada di merda, e questo cofano com’è duro. La testa, la mia povera testa. Spero di non sanguinare. Devo fare bella figura, mi sono impegnato tanto.

Mamma guardami, papà.

Finalmente a casa…

Che bel tepore che c’è. Il camino crea un ambiente familiare, domestico. Tutto sembra in armonia, e io con loro.

Sono importante, per una volta mi sento perfettamente integrato, adatto.

Non tutta la legna è uguale, quella che vedo qui è verde, non stagionata… non stagionata al sole.

Finalmente ho i vestiti adatti per il mio miglior Natale.

Sono un protagonista addobbato a festa eppure, cosa mi manca?

Sono in questo Natale: un giorno felice come tanti, vissuto con i tappi negli orecchi, in apnea in un lago, in un fiume o nel mare più sconfinato con i rumori che mi rimbombano nel cervello. Tutto è ovattato e ogni rumore sembra lontano, lontano da me. Vorrei fosse così, sempre così. Vorrei che il Natale non finisse mai.

Ripercorro quei gesti, quei momenti, No! Non è un suicidio, non è un’improvvisazione. È un desiderio.

Credevi di essere cresciuto forte come una quercia ma non è stato difficile coglierti come un fiore di Daphne.

Vigliacco! Ammettilo, ti sei nascosto nel ricordo delle prime favole ascoltate da bambino, cercando un colpevole, e anche se ora imprechi contro te stesso come un dio, non ti salva.

Passano i giorni e l’entusiasmo finisce, la gioia lentamente si spegne e tutto si riduce a un cumulo di tocchetti di legna per l’inverno che avanza. Brucia il Natale così velocemente che è già cenere.

Profumo misto a fumo.

Con fatica viene tagliato l’albero:

«Me lo ricordavo più morbido, sembra quasi che opponga resistenza. Com’è duro! L’inverno deve averlo reso ispido.

Presto, facciamo presto, buttiamolo nel camino. Anche la cenere è ingombrante, straborda».

«Non ne posso più di quest’albero. È concime, gettiamolo in giardino, non serve più».

Presto ritornerà marzo e la mattina ti sveglierà con un timido respiro e non più con la violenza di un temporale.

Ora che sei salvo cosa ti manca?

La morte così è vinta.

Angelo Panico

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