Tavolozza di amore e abbandono. di Miriam Nacca

«Ti sembra questo il momento opportuno?» sbottò Gabriele Neri rivolgendosi al figlio.  

Ma Daniele, con testarda pazienza, si era già seduto sulla poltrona nei pressi della scrivania. Il padre non tolse lo sguardo dal verbale di una testimonianza che avrebbe dovuto usare il giorno seguente in aula. Daniele sapeva che si trattava di “un caso grosso” e che necessitava di tutta la concentrazione possibile, ma la sua curiosità non poteva più aspettare.  «Dai papà, sono giorni che ti prepari per questo processo, andrà bene, e straccerai la difesa, succede sempre così! Dammi solo cinque minuti. Avevi promesso che mi avresti parlato di tua zia Marion, lo sai che sto dipingendo il suo ritratto da quella foto che mi hai dato; il progetto per l’Accademia è importante e ho bisogno di conoscere meglio la suo storia. La foto è in bianco e nero ma io voglio usare i colori, e i colori devono raccontare la sua storia, le sue emozioni, sì era bellissima, ma se non riesco a trasmettere qualcosa di più profondo con il suo ritratto… beh, allora è tutto inutile!». 

«E va bene!» esclamò Gabriele spazientito. Finalmente alzò gli occhi dal quel fascicolo che aveva tra le mani, lo posò, e si accese una sigaretta. Iniziò, poi, a scrutare il figlio con fare spetto, e così, come se la nuvola di fumo che gli usciva dalla bocca avesse magicamente cancellato i suoi impegni, le sue preoccupazioni e il suo processo, si accorse di essere stato troppo duro e di aver sottovalutato, ancora una volta, l’importanza della formazione artistica del figlio. Dopotutto Daniele aveva scelto una strada così diversa dalla sua che a volte stentava ancora a crederci, ma non si era mai opposto, ricordava bene cosa volesse dire “avere la vocazione all’arte”. In fin dei conti Daniele era un po’ come la zia Marion. 

«Hai ragione figliolo, te l’avevo promesso. Dunque vediamo…la zia Marion…da dove comincio?».  

Daniele abbozzò un sorriso: «Dal tuo primo ricordo di lei?».

 «Quando conobbi zia Marion era Maggio» cominciò Gabriele mentre il fiato delle sue parole diradava la nuvola di fumo tra lui e il figlio. «Ricordo che zio Giacomo la portò alla baita in montagna per farcela conoscere proprio in occasione del compleanno della nonna. Zia Marion era bellissima, come altro potrei descriverla? Dopotutto era una nota attrice di teatro di origine francese, calpestava i palcoscenici di mezza Europa, era sulle locandine pubblicitarie in molte città, compariva sulle riviste più in voga. A proposito! La foto che ti ho dato, è proprio quella con cui promuoveva lo spettacolo che lei preparava quell’anno, così la ricordo, e così vorrei che fosse vista da chi osserverà il tuo dipinto». 

«Ti ricordi per caso cosa indossasse, magari un colore in particolare?» chiese Daniele. «Certo che no, ero un ragazzino di undici anni, è passato un secolo da allora, o almeno così mi sembra. Però quando penso a lei ogni ricordo nella mia mente assume una vaga tonalità di rosso, probabilmente è il colore che meglio la rappresenta e per questo lo associo a lei. Portava sempre un rossetto con sé, le regalavano in continuazione fasci di rose, ogni volta che veniva a trovarci in città l’appartamento di zio Giacomo era tappezzato di rose, sembrava un vivaio, ricordo che prendevo sempre in giro lo zio per questo motivo e lui si infastidiva parecchio…la suscettibilità dev’essere un vizio di famiglia».  Proruppe in una sonora risata e Daniele lasciò che il padre si sfogasse, probabilmente stava ritornando con la mente a quegli anni della prima adolescenza, quelli in cui si era sentito libero, leggero e spensierato, intraprendente e avventuroso, tutto grazie a zia Marion, o almeno così gli aveva raccontato, di sfuggita, qualche volta in passato. Ascoltò la risata affievolirsi a poco a poco. «Beh era un raggio di sole, una forza della natura» continuò Gabriele «nessuno sapeva resistergli. Aveva conosciuto zio Giacomo perché era cliente di un suo amico e un giorno lui la vide arrivare in ufficio per firmare il contratto per la nuova stagione teatrale e in men che non si dica lo zio si ritrovò innamorato pazzo di lei, a tal punto da rinunciare ad un caso importante pur di passare alcuni giorni con lei. Un grande amore davvero, almeno così fu per qualche anno. Zia Marion era continuamente in tournée, ma questo non le impedì di sposare zio Giacomo tre mesi dopo il loro primo incontro. L’aveva letteralmente stregato. Mio zio, come ti ho detto tante volte, era ormai già un uomo maturo e tutti in famiglia pensavamo che non si sarebbe più sposato. Quando però lo vedemmo presentarsi, quella mattina di Maggio, con la donna più affascinante che avessimo mai visto, rimanemmo così stupiti che quasi pensammo che ci stesse prendendo in giro. Un avvocato e un’attrice? Chi l’avrebbe mai detto!». 

Gabriele fissò per un momento lo sguardo fuori dalla finestra e corrugò la fronte. Quante illusioni, quanti sogni, quante speranze portava con sé la gioventù. Quanti progetti però rimanevano incompiuti, quante promesse infrante per semplice codardia o eccessiva rigidità di pensiero. 

Daniele vide il padre accigliarsi e con un colpo di tosse accuratamente programmato richiamò la sua attenzione. «Sì, scusami» riprese l’uomo «mi ero perso tra i miei pensieri. Beh, forse ti starai chiedendo anche tu, come facevamo noi al tempo, come mai zia Marion, fresca, radiosa e instancabile, si fosse innamorata di un noioso avvocato quale era lo zio Giacomo (e che probabilmente sto diventando anch’io con gli anni). La risposta la offrì a noi la stessa Marion: si era innamorata del suo sorriso. Una vera e propria risposta “ad arte” che a lei piaceva ripetere e che, sono convinto, si basava sulla verità. Zio Giacomo non era la persona più comica e ilare del mondo, ma aveva un certo humor, il sarcasmo pungente tipico delle persone argute, e puntualmente, quando faceva qualche battuta delle sue, tirava fuori quel sorrisetto furbo che aveva catturato la zia Marion. Tutti noi la vedevamo arrossire ogni qual volta si perdeva a guardare la curva delle guance di suo marito, la sentivamo ridere a crepapelle, anche per l’affermazione più banale. Lui le dava sicurezza, così mi diceva sempre facendomi l’occhiolino e affermando solennemente che un giorno avrei capito. Si muoveva nella sua vita come su di un palcoscenico, irradiava gioia, bellezza, desiderio di esserle complice, tutti cedemmo al suo fascino. Era molto giovane, non ricordo esattamente quanti anni avesse, ma credo che si fosse sposata intorno ai vent’anni. A voi giovani d’oggi sembra assurdo, ma allora era normale».

 «Sento che è in arrivo la parte triste della storia!» affermò Daniele con un sorriso amaro, l’aveva già ascoltata una volta. 

«Esattamente» sentenziò Gabriele. «Il loro matrimonio durò appena un paio d’anni, e li ricordo come i più belli della mia fanciullezza, perché la presenza di quella zia girovaga e sorridente aveva dato un tocco di brio e di elettricità a tutta la nostra famiglia. Quando lei tornava dalla tournée era sempre una festa. Poi un giorno di Dicembre, loricordo come se fosse ieri, la famiglia era tutta riunita a casa della nonna in attesa del giorno di Natale, ed io sentii un rumore assordante di ceramiche rotte provenire dal salotto in cui poco prima avevo lasciato zia Marion e zio Giacomo. Lo zio aveva distrutto un antico vaso, era in preda alla furia e continuava ad inveire contro Marion. Le sue urla rimbombarono in ogni polveroso angolo della casa. Lei era in lacrime, non riusciva nemmeno a rispondere con una frase ben articolata. Lui le gridava che ormai era finita, che non avrebbe atteso un’altra stagione teatrale, non le avrebbe permesso ancora di girare per il mondo come se non fosse una donna sposata. Lui voleva dei figli, erano ormai due anni che Marion rimandava. Che famiglia potevano mai essere senza figli? Lui ormai aveva superato da un po’ i trenta e non aveva più intenzione di rimanere ad aspettarla mentre lei viveva la sua carriera da vagabonda. La zia piangendo cercava di rispondergli, gli diceva che lui l’aveva sempre saputo che avrebbe dovuto aspettare per dei figli. Lei voleva davvero avere dei bambini, ma era ancora presto, era lei stessa quasi ancora una bambina, e poi aveva il lavoro, il contratto con la compagnia teatrale… Per nulla al mondo avrebbe voluto perdere suo marito, ma se lui l’avesse amata avrebbe aspettato che lei fosse abbastanza matura per mettere al mondo dei figli. Lo zio, per tutta risposta, le disse che così non andava, che non erano una famiglia “vera”, che lei l’aveva ingannato pensando che potesse trattarlo come un personaggio fittizio di una qualsiasi commedia teatrale da quattro soldi. La zia allora pronunciò quelle parole che ricordo ancora adesso, in tono grave e disperato disse allo zio che la verità è ciò che si costruisce con il tempo, che solo alla fine di un percorso si vede cosa è stato vero e cosa non lo è stato. Lui non la degnò di riposta e si limitò ad uscire dalla stanza. Quel Natale non lo trascorsero con noi, partirono il giorno dopo e tornarono nell’appartamento a Parigi, ma qualcosa ormai si era rotto tra di loro, la struttura del loro amore aveva vacillato in maniera troppo violenta per non rimanere incrinata. Dopo qualche mese venimmo a sapere che si erano separati, zio Giacomo l’aveva mandata via. Solo anni dopo confessò alla nonna che quello era stato l’errore più grande della sua vita, perdendo Marion aveva perso il suo sole. Dopo qualche anno si risposò, ma anche questo matrimonio naufragò in breve tempo, nessun’altra riusciva a prendere nel suo cuore il posto che era stato di Marion. Gli anni passarono e così lo zio rimase solo, smise di cercare, e continuò a vivere nel ricordo di lei, pentendosi di averla mandata via ma senza mai avere il coraggio di tornare sui suoi passi. Tutta la famiglia fu addolorata per la fine di questo amore… ognuno di noi aveva perso qualcosa. Dopo tutto questo tempo ancora mi commuovo al pensiero di come le cose importanti possano finire così…». 

«Ma perché lo zio non tornò da lei? Avrebbe potuto farle cambiare idea, avrebbe potuto scusarsi, tutti commettiamo degli errori, se la zia era l’unica donna della sua vita, come ha potuto trascorrere il resto dei suoi giorni lontano da lei sapendo che lui stesso l’aveva allontanata?». 

Gabriele rifletté un momento sulle parole del figlio: era ancora un ragazzo, aveva il cuore puro e gli occhi di chi sogna, il bagliore di chi vuole vivere rischiando. «Vedi Daniele…» rispose «tu sei ancora molto giovane, forse non sei ancora mai stato innamorato, ma a tempo debito ti renderai conto. Più si va avanti nel corso della vita più le scelte sono difficili, le decisioni portano irreversibili conseguenze, gli adulti sono orgogliosi e rendono l’amore complicato». 

Con un sorriso malinconico Daniele si alzò dalla poltrona, si avvicinò alla scrivania e posando una mano sulla spalla destra del padre disse: «Penso che non mi basterà un’intera tavolozza di colori per dipingere il suo ritratto. Forse, in fin dei conti, il bianco e il nero di quella foto rendono meglio l’idea di come la sua vita sia stata piena della luce dell’amore e dell’ombra dell’abbandono». 

«Mi aspetta questo quindi?» continuò dopo una piccola pausa. «È così brutto innamorarsi?» chiese con il fare di chi nutre in maniera malcelata la speranza di essere contraddetto.

 «No figliolo» disse immediatamente il padre «innamorarsi è sempre una cosa bella». 

Miriam Nacca (N60004602) 

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