Cullata
Trntrn – trntrn – trntrn – trntrn
Questo ritmo incalzante ritornava a essere più forte nella mia mente, così pian piano ripresi conoscenza e staccai la tempia dal sudiciume del finestrino. In una stretta rassicurante, tenevo in grembo il mio piccolo Forster. Lui era lì, tranquillo e non si lamentava. Aveva molte cose da dire e da dirmi, ma rispettava il mio sonno in un silenzio sacrale. Era il mio compagno di viaggio e sapeva l’effetto che aveva su di me quella culla su rotaie. Potevo avere accanto ballerini nomadi, musicisti, grandi e navigati chiacchieroni, ma ogni volta avrei scelto di abbandonarmi a quello schermo spalancato sul mondo. E quando la pellicola fosse stata satura di immagini, avrei chiuso gli occhi e avrei salvavo il tutto, chiudendolo in uno scrigno: il mio personale tesoro, che forse un giorno un pirata dal cuore tenero avrebbe trovato. Riaprii il libro in corrispondenza del mio dito indice, ero ancora là, non riuscivo ad andare avanti: «La vita non ci dà mai quello che vogliamo nel momento che ci sembra giusto». Ancora una volta non andai oltre quel Gange di parole che scorreva su pagine ingiallite, inclinai nuovamente il capo e vidi che stavamo per entrare. Con delicatezza, come fosse la cosa più naturale del mondo, scivolavamo dentro quel buco nero pronto ad accoglierci. Buio …
Trntrn – trntrn – trntrn – trntrn
Con la mia vita sospesa su quelle rotaie, sentivo e prendevo decisioni radicali che non sarei riuscita a mantenere quando avrei rimesso piede nella dimensione reale. Facevo scelte azzardate per il mio futuro, recidevo i rami secchi della mia vita, ma puntualmente li ritrovavo come catene strette ai polsi, una volta arrivata a destinazione. Sì, perché questo era uno dei miei problemi fondamentali. Non riuscivo a liberarmi di quelle persone che ponevano limiti alla mia esistenza… Mettendo nero su bianco, per la prima volta, avevo capito il senso. Inconsciamente, tenevo strette queste persone per vivere in uno stato di lotta perenne per la mia libertà. Non l’avevo mai considerata da questo punto di vista. Avrei dovuto ringraziare tutti gli aguzzini della mia anima, le regole del buon costume e della società, perché mi consentivano di mantenere il mio spirito sempre in viaggio.
Mentre deragliavo dai binari della mia mente, vidi disegnarsi quel paesaggio così familiare. Lo ammirai incantata, così come l’amante osserva il profilo della sua donna distesa sotto il suo sguardo. La velocità decresceva pian piano, e io avvertivo il tempo come se si stesse dilatando e temevo di non abituare immediatamente il mio corpo al nuovo ritmo. Iniziò il sangue a defluire più lentamente, seguito dal battito del mio cuore. Poi le mie palpebre smisero di comportarsi come dei paparazzi impazziti. Era il momento di raccogliere tutte le mie cianfrusaglie, chiusi il libro che avevo tenuto stretto per tutto il tragitto, di cui avevo letto a malapena tre pagine. Aspettai che il mio vicino si alzasse e mi resi conto che non avevo ancora visto il suo volto. Non l’avevo degnato di uno sguardo, neanche quando mi aveva aiutata a tirar giù quella pesante e insensata valigia che mi trascinavo dietro. Sulla sommità di quella maledettissima scaletta che mi avrebbe ricondotto nella vita reale, allungai lo sguardo e sorrisi. Eccolo lì il mio pirata.
Non aveva un occhio di vetro, solo iridi scure e lucide. Non c’era traccia della classica gamba di legno, al suo posto un ombrello a mo’ di sostegno per le sue stanche gambe. Non correva verso di me, ma mi osservava da lontano, protettivo. Era stata forte la tentazione inconfessata di raggiungermi ai confini del mondo col suo galeone, quell’imponente imbarcazione bianca che mi aveva salvato da tanti naufragi.
Lui mi amava, e lo capivo perché mi lasciava libera di volare, e di impigliarmi nei rami secchi e di ferirmi, anche. Mi avvicinai, non dissi niente, ero stanca. Ma i nostri cuori comunicavano in un flusso ininterrotto, erano binari perfettamente congruenti. Tutto quello che riuscii a dire fu: «Papà, mangiamo una pizza stasera?».
Rosanna Fontanarosa