Back to life

Back to life

L’altro giorno ero in stazione, dovevo prendere il treno per tornare a casa dopo una delle tante mattine passate all’università tra le lezioni e lo studio. Come al solito andavo di corsa, non volevo perdere il treno col rischio di passare le seguenti due ore da sola ad aspettare senza aver niente da fare. Quel giorno però in stazione c’era una novità; in un angolo poco distante dai binari e vicino ai tanti negozi c’era un pianoforte; un ragazzo lo suonava meravigliosamente e allietava l’attesa di molti viaggiatori che aspettavano di ripartire. La maggior parte di loro, persi tra i loro pensieri, non si fermavano ad ascoltare la musica, ma io riconobbi subito tra le note che si diffondevano nell’aria circostante, uno dei brani che in passato avevo amato di più, di quelli che richiedono mesi e mesi per essere imparati ed eseguiti alla perfezione ma che quando ci riesci non smetteresti mai di suonare. Per un attimo avevo dimenticato il treno, la corsa, il dover tornare a casa, e mi ero immersa completamente  nel pezzo di Debussy; d’un tratto era un soleggiato pomeriggio primaverile e io non ero più in stazione ma seduta sul mio sgabello bordeaux ad esercitarmi per la prossima lezione di piano.

Tutte le volte che mi capita di ascoltare il suono di un pianoforte sono pervasa da una sensazione che oscilla tra la nostaglia e la tristezza, ma se scavo più a fondo ci sono anche la delusione, il rammarico e infine la felicità. La felicità che mi procurano i tanti ricordi legati a quello strumento che chiuso in una stanza da troppo tempo è ormai diventato un componente della mobilia.

Avevo otto anni quando per la prima volta mi avvicinai a quello strumento; mi trovavo a casa di alcuni amici di famiglia e proprio al centro del loro salone c’era un bellissimo pianoforte nero a coda; era così grande, maestoso ed imponente, non ne avevo mai visto uno così da vicino e non vedevo l’ora di poterlo toccare.

Ero affascinata da quella miriade di tasti bianchi e neri che si rincorrevano l’un l’altro in modo così ordinato, eppure sfiorandoli, pigiandoli, il suono che ne veniva fuori non aveva alcun senso. Non riuscivo a spiegarmi il motivo per cui non fossi capace di tirar fuori una melodia, mi ostinavo premendoli a casaccio, cercando di produrre qualcosa di armonioso e che si avvicinasse il più possibile all’idea che avevo in testa, ma invano.

Allora mi spiegarono che per riuscire a suonare bisognava saper leggere la musica, saper tenere il tempo, riuscire a coordinare la mano destra con quella sinistra.

Decisi di voler imparare e i miei genitori furono da subito più entusiasti di me; mi comprarono un piano ed un metronomo, si mobilitarono immediatamente per trovarmi un insegnante e quando con la mia prima maestra non funzionò non si scoraggiarono e me ne procurarono subito un altro. Mio padre mi accompagnava ogni settimana in accademia, e sebbene ci volessero quaranta minuti per arrivarci, nonostante il fatto che per tutto il tempo della durata della lezione lui dovesse aspettare in macchina leggendo un libro, lo ha sempre fatto con piacere e non me lo ha mai fatto pesare.

Non si è mai lamentato del suo ruolo di “autista”, non ha mai mancato di accompagnarmi ad una lezione e ne è sempre stato felice, entusiasta per i miei progressi e per il fatto che stessi imparando a suonare uno strumento così complesso.

D’altronde la musica è una delle sue più grandi passioni, che mi ha trasmesso fin da bambina, e molti dei miei ricordi più belli legati al pianoforte si concentrano proprio in quel breve tragitto che ci separava dalla mia lezione settimanale.

Era un momento tutto nostro in cui parlavamo della scuola, dei viaggi e delle vacanze, di libri e fumetti, e naturalmente di musica.

Ogni settimana c’era un disco diverso di cui mi raccontava la storia, e ricordava come e quando anche lui lo avesse ascoltato per la prima volta. Primi tra tutti i Beatles, i suoi preferiti, credo che “Let it be” sia stata una delle primissime canzoni che ho imparato a memoria. Poi i Pink Floyd, Bob Dylan, e De Andrè con la sua “Canzone di Marinella”, e Guccini, Battisti e De Gregori di cui mi spiegava sempre i testi, perché io Rimmel nonostante lo conoscessi tutto continuavo a non capirlo.

Così andavo ogni volta a lezione con una nuova ispirazione, con un nuovo spunto e con la voglia di sperimentare i generi più diversi; il jazz, il rock, il soul. Ma il mio genere preferito restava la musica classica e anno dopo anno conoscevo e amavo Mozart, Bach, Chopin, Haydn, Schumann e più di tutti Claude Debussy.

Lezione dopo lezione e autore dopo autore trascorsero diversi anni; ormai ero al liceo e il pianoforte non era più un semplice hobby ma era diventato “quello che avrei potuto fare da grande”. Non avevo mai pensato molto a quello che sarei diventata nella vita una volta cresciuta, ma quando cominciai a farlo non riuscivo proprio a vedermi nelle vesti di una musicista, o più realisticamente in quella di un’insegnante di piano e di musica. Quella era una cosa mia, che non volevo assolutamente condividere, odiavo esibirmi e partecipare ai saggi, e soprattutto non volevo che divenisse un lavoro per me, ma che restasse una sorta di svago.

Mi sentii subito in dovere di avvertire i miei genitori del fatto che non volevo che il pianoforte diventasse un giorno il mio mestiere, ripetevo che non sapevo ancora ciò che volevo fare con certezza ma che di sicuro non avrei voluto fare quello. Mio padre mi rassicurava dicendomi che poteva continuare ad essere soltanto un passatempo, che potevo suonare quello che volevo e quando volevo, ma la realtà non era quella.

La lezione arrivava puntualmente ogni settimana e non era più così divertente; ero obbligata a seguire i programmi del conservatorio per poter dare gli esami, perché arrivata ad un certo livello bisogna andare avanti, non puoi fermarti. E così mentre cercavo di decifrare le “Suite inglesi” di Bach e le sue “Invenzioni a due voci”, imparavo da sola ogni pezzo di Giovanni Allevi e di Ludovico Einaudi, perché volevo continuare suonare quello che piaceva a me e non quello che mi veniva imposto. Mi sentivo oppressa, era come se frequentassi di continuo due scuole e avevo cominciato a perdere l’interesse degli anni precedenti. Volevo soltanto smettere, smetterla di andare a lezione ogni settimana ed esercitarmi ogni pomeriggio dopo i compiti, volevo più tempo per me, godermi la mia adolescenza e non avere il peso continuo di una scadenza settimanale da rispettare. Nonostante questo a quindici anni diedi il mio primo esame al conservatorio conseguendo il diploma di solfeggio e teoria musicale, e tra i vari ripensamenti continuai per altri tre anni, in modo scostante e disomogeneo, e facendo pochi progressi.

Era arrivata la fine del liceo e dopo la maturità avrei dovuto seriamente pensare a cosa dovessi fare della mia vita. Decisi senza troppi ripensamenti di smettere col pianoforte per dedicarmi soltanto agli studi universitari, nonostante i miei genitori spingessero per continuare il conservatorio e dedicarmi soltanto a quello.

Tuttavia persistetti nella mia decisione, incappando nella loro profonda delusione che mi pesava più di quanto volessi ammettere e a cui pensavo di non poter rimediare. Io stessa vacillai nei miei intenti dopo un primo anno disastroso e inconcludente di giurisprudenza; avevo scelto la facoltà sbagliata e tutto quello che mi riguardava era ancora una volta in discussione. Fortunatamente le cose poi sono migliorate, e ora che ho quasi concluso il mio percorso di studi so di aver fatto la scelta giusta, perché nonostante i sacrifici e le difficoltà, nonostante il fatto che il mio avvenire continui ad essere così incerto, tutto è avvenuto in modo naturale, senza troppi sforzi.

Sono quasi sette anni che non tocco un pianoforte. Pur trovandosi ad una stanza da me, non riesco a trovare la forza di suonarlo nemmeno per svago, non ne ho la voglia e il coraggio neppure quando sono sola. Sento di non aver deluso soltanto la mia famiglia ma anche il mio strumento che all’inizio amavo tanto e che mi ha vista in principio così entusiasta di imparare. Nonostante questo lo ascolto ancora spesso rapita e ogni volta che lo sento mi chiedo cosa sarebbe successo se solo avessi continuato; forse sarei già diplomata, realizzata, più felice, piuttosto che con un futuro ancora così incerto. Purtroppo non lo saprò mai, per ora il suo richiamo resta ancora inascoltato. Ad oggi quello che anni fa si ruppe dentro di me e mi portò a smettere di suonare è rimasto ancora tale, ma spero un giorno di poter guardare di nuovo quello strumento e ricominciare a suonare solo per me, così come avevo cominciato.

Rossana Capaldo

Gruppo “Alfonso di Virgilio”

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