Fenomenologia di un amore

                                                                                               “ Considero valore quello che domani non varrà più niente
                                                                                                                                    e quello che oggi vale ancora poco.
                                                                                                                                         Considero valore tutte  le ferite.”

Erri De Luca

di Sara Pisano

Chi l’avrebbe mai detto che sarei finito qui, seduto sulla poltrona del mio salotto a veder scorrere i giorni, le ore e i minuti, senza poter uscire fuori a passeggiare per le strade di Napoli; senza poter scendere nemmeno qualche attimo giù in cortile, per sentire il vento sfiorarmi la pelle.
Chi l’avrebbe mai detto che la casa costruita con sacrificio e lavoro, amore, sarebbe diventata un giorno la mia unica ancora di salvezza.
La mattina mi alzo, o meglio , c’è un angelo di Capo Verde di nome Francesco che mi aiuta a farlo; è da circa dieci anni in  Italia e parla fluentemente la nostra lingua. Ogni mattina, ogni notte, quando mi sveglio e il buio pesto della mia camera mi avvolge, inzio a dar forma ai miei ricordi, spesso ad occhi aperti, altre volte ad occhi chiusi: rincontro mio padre, mia madre e parliamo per ore. Dicono che lassù si stia bene, l’ambiente è tranquillo, si vive tutti insieme in un immenso giardino circondato da un’atmosfera bianca. Tutti sorridono e sembrano essere felici; non ci sono obblighi, scadenze, tutti volteggiano come fossero piume leggere e cosa per me inspiegabile, non sentono nemmeno il bisogno di dover mangiare: forse per questo riescono a fluttuare.
Certe volte quando chiudo gli occhi mi sforzo più che posso per poterli raggiungere, credo di esserci quasi riuscito, sto per spalancare le porte di quel giardino così silenzioso e… niente da fare, immediatamente il mio stomaco inizia a brontolare e così con quel filo di voce che mi resta, lo chiamo: “Francesco!” .
  Dopo essere stato lavato, vestito e profumato, vengo spostato dal letto della camera alla poltrona del mio soggiorno. Dopo poco mi accorgo che la signora Maria è in piedi davanti a me, con una zuppa di fagioli bollente e con l’immancabile pane cafone che adoro. Nel frattempo ho già ingurgitato una serie di svariate pillole per il cuore che detesto ma che prendo ugualmente.
  Accendo la televisione e scopro che lì fuori, nel mondo, accadono solo cose spiacevoli e come se ciò non bastasse, la poltica continua a contribuire al disfacimento del nostro paese. Uomini che uccidono donne, persone scomparse, persone che decidono di farsi saltare in aria uccidendo innocenti. Scopro anche un nuovo modo di parlare con parole quali “ Facebook”, “smartphone”, “social”,” twitter”; non ho proprio ben capito cosa siano tutte queste cose , so solo che il più delle volte, quando mi capita di guardare i parenti che vengono a trovarmi, li ritrovo spesso assorti tra i loro pensieri , chinati  e un po’ aggobbati verso lo schermo del cellulare come se stessero nascondendo un segreto prezioso. Un po’ sono curioso di capire cosa ci sia in quel minuscolo aggeggio luminoso, ma sono ormai stanco per capire; così contraggo un po’ le sopracciglia , poi sorrido e torno a guardare il “maxi schermo” televisivo.
La maggior parte delle ore le spendo a dormire, poi quando mi sveglio mi sembra di aver perso la cognizione del tempo e così non ricordo, che giorno è, dove sono, cosa ho mangiato, che ore sono. Lo chiedo ad una delle mie figlie o a mia nipote e prego loro di essere precise nella definizione dell’orario : “Sono le 7,00 o le 19,00? Se mi dite le 7, io capisco che sia giorno!”.
In genere mi risveglio sempre in tempo per l’inizio de L’Eredità , il programma televisivo su Rai1 condotto da Fabrizio Frizzi . Il mio primogentito è un dottore, molto preparato sulla cultura generale e riesce a rispondere a tutte le domande, la mia terza figlia invece è molto capace nell’individuare la parola chiave nel gioco finale, La ghigliottina.
Ma stare seduto troppo tempo in poltrona spesso fa sentire tutto il peso del proprio corpo e così il più delle volte sento un formicolio dappertutto e chiedo a mia nipote di farmi un massaggio alle spalle e alla mia quarta figlia di riposizionarmi per bene il cuscino dietro ai reni, quello che mi hanno da poco regalato per il compleanno ( non gliel’ho mai detto , ma è una vera salvezza!).
Sapete, un tempo non ero così fragile, anzi sono sempre stato un ragazzino vivace e poi un uomo molto sicuro di sè. Ho conseguito il diploma da geometra e prima di vincere il concorso come ispettore del Ministero della difesa sono partito per la leva. E’ in quella dimensione che ho imparato ad dover bastare a me stesso, a dover piegare in un certo modo la divisa, a mangiare in un certo quantitativo di minuti. Ed è in quel periodo che l’inchiosto e la carta da lettere divennero i miei migliori amici, capaci di farmi sentire meno la mancanza della mia Ninì.
Conobbi Anna gli ultimi anni del liceo e il nostro fu un vero e proprio amore d’altri tempi, nato tra incontri nascosti e baci rubati. Ma la lontananza si sa, puo’ essere deleteria o  talvolta rivelarsi estremamente preziosa per i legami solidi, sinceri ed indissolubili, come il nostro. Così, la notte,  in una tenda scomoda, o di giorno, sulle pietre ruvide, riuscivo a ritagliare sempre un momento per scriverle che l’amavo e che desideravo solo di riabbracciarla.
Tornato a Napoli coronammo il nostro desiderio di sposarci, iniziai a lavorare e poi vennerero i nostri quattro figli. Non posso dire che il nostro fu un amore perfetto, anzi, il più delle volte litigavamo ed entrambi facevamo scivolare via il motivo per cui ci eravamo sposati, la routine ci stava uccidendo e iniziammo a comportarci come due estranei.
La vita continuò a regalarci comunque grandi gioie, con in cima cinque meravigliosi nipoti.
Ho sempre badato alla mia famiglia, comprato i libri necessari per far studiare i miei figli, i vestiti, le scarpe e ho cercato di dar loro ciò di cui avevano bisogno. Il lavoro mi aiutava a ricordare chi fossi , a dimenticare le preoccupazioni e una volta tornato a casa, per difendermi, mi chiudevo nel mio salotto , sedevo sulla mia poltrona e leggevo. I libri sono sempre stati il mio scudo e la mia forza e con il tempo parte imprescendibile dell’arredamento. Più leggevo e più occorreva spazio, più leggevo e più imponevo la mia presenza tra i mobili , gli scaffali, i ripiani. Inizialmente speravo che qualcuno mi fermasse, o quantomeno mi chiedesse cosa torvassi di tanto importante in mezzo  a quelle pagine ingiallite e impolverate; fin quando le voci dei personaggi di carta hanno inziato a divenire più solide e più reali di quanto non lo fossero le voci reali, di chi mi circondava.
L’arte, la letteratura, sono diventate con il tempo il mio più grande amore, il mio unico e solo rifugio. Ricordo ancora quell’anno in cui decisi che non avrei potuto perdere per nulla al mondo la mostra di Picasso a Roma e così presi il treno e partii. Essendo arrivato in anticipo, decisi di fare un giro per Roma e proprio sui gradini di una Chiesa inciampai e mi ruppi il braccio. All’ospedale mi informarono che avrebbero dovuto operarmi, ma un braccio rotto non avrebbe potuto costringermi a restare a Roma, per di più in ospedale e soprattutto non avrei potuto perdere la mostra. Così, con una fasciatura modesta, lasciai l’ospedale per immergermi nel periodo blu del grande Pablo!
    Imparai a costruirmi una mia dimensione, un mondo speciale inaccessibile a chiunque volesse avvicinarsi: avevo trovato una maschera potentissima capace di nascondere ogni mia ferita e di  mostrarmi agli altri invincibile.
   Ma la mattina del 18 ottobre 2010 il destino volle mutare le carte in tavola, mettermi alla prova e distruggere quella maschera alla quale mi ero tanto affezionato: vidi Anna accasciarsi a terra, senza forze, pallida e con lo sguardo un po’ perso nel vuoto. Non ebbi paura, telefonai mia figlia per chiederle di  correre a casa per aiutarmi ad alzarla da terra, da solo proprio non ci sarei riuscito. E così facemmo, grazie anche alle forti braccia di mio nipote e la aiutammo a stendersi sul letto. Nel giro di pochi minuti l’ambulanza, la carta di identità, gli occhi di Anna immobili, il cuore che aveva cessato di battere e in un lampo la morte.
Funerale, saluti di circostanza, abbracci, telegrammi, fiori, lacrime e poi, a casa.
Ma quale casa? No, non era certo più la stessa casa dei giorni precedenti e più che il senso di morte che le si era appiccicato alle pareti il giorno prima, ora, regnava silenziosa l’assenza.
Vagavo per le camere in cerca di qualcosa, in cerca di questa presenza così labile eppure così forte ma ero solo, in quella casa, ero solo.
Il mattino seguente mi feci forza e decisi di entrare nella camera di Anna aprendo silenziosamente la porta per paura di svegliare qualcuno. Incredibile da credersi: il letto era rimasto sempre lì, i comodini non si erano mossi e gli armadi dormivano imponendo la loro immensa presenza. Sedetti per qualche momento sul letto e posai la mia mano sul piumone, non avevo mai notato prima di quel momento quanto fosse soffice e quanto quel colore rosa fosse stato scelto con cura, tale da creare un’armonia unica con la poltrona, poco distante dal letto, anch’ essa rosa.
Il tempo continuava a scorrere e in breve divenne sera, ma io non volevo dormire, volevo trovare una ragione in quel che era accaduto, così iniziai a cercarla Anna, nei cassetti, fra i quadri, dietro la porta, sotto il letto, nella vasca da bagno, tra il fornello e il frigorifero, nel ripostiglio , tra il ferro da stiro e il termosifone. Vagavo avanti e indietro fra un corridio e l’altro della casa e più camminavo , più mi rendevo conto che forse quella casa in cui avevo abitato per più di trent’anni, non l’avevo mai osservata , vissuta e capita fino in fondo, come quella volta. Fu tutto inutile: quella sera non l’avrei trovata la mia Anna e nemmeno nei giorni seguenti. E dunque per chi avrei dovuto comprare i pacchi di pasta, lo zucchero, il sale, il caffè? Chi mi avrebbe scritto la lista dei detersivi da acquistare? Con chi avrei litigato d’ora in poi sulla scelta dei programmi televisivi? Chi mai avrebbe cercato di impedirmi la lettura con la sua presenza? E allora cessai. Di cucinare. Di scrivere. Di leggere. Di domandare.
Una notte l’ho sognata, la vedevo in quel giardino in cui vidi per la prima volta mamma, papà e mio fratello. Mi sorrideva e in quel sorriso percepivo una sorta di attesa, poi mi voltò le spalle e prima di dissolversi tra le margherite delicate, mi fece un cenno col capo come se dicesse: “Sì, puoi vivere. Vivi e intanto io ti aspetto.”
  Chi l’avrebbe mai detto che sarei finito qui, seduto sulla poltrona del mio salotto a veder scorrere i giorni, le ore e i minuti senza poter uscire fuori, a passeggiare per le strade di Napoli; senza poter scendere nemmeno qualche attimo giù in cortile per sentire il vento sfiorarmi la pelle; senza aver più nemmeno la forza di reggere le costole di un libro e sfogliarne lentamente le pagine.
E chi l’avrebbe mai detto che dietro la casa costruita con sacrificio e lavoro si celassero in realtà  tracce di un amore che ha saputo resistere al freddo, alle tempeste, ai cataclismi più disparati.
Se  oggi il mio cuore batte ancora , se la rabbia per il mio corpo malandato non prende il sopravvento, è grazie ai miei oggetti silenziosi di cui sono geloso custode e dei quali non tollero alcuno spostamento: album di fotografie , la piantina regalatale per Natale, il sottopentola che detestavi, i mobili che ci hanno accompagnato durante tutta la nostra vita, le mie giacche dove riconosco il solco del tuo braccio perché ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale, la macchia di caffè sul soffitto della cucina, i centrini ricamati tra i mobili del salotto, il presepe che costruii  con colla e materiali riciclati, il tuo profumo Collistar, il mio blocchetto di foglietti bianchi per scrivere la spesa, i quadri, le tende, i soldatini, le enciclopedie e quella scatola.
La scatola contenente un tempo un uovo di Pasqua e che custodice oggi, intrecciate da un filo di spago sottile, le nostre lettere piene d’amore. E’ in tutto questo che io ti ritrovo: mi ritrovo.


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