Convogli
Le lucette rosse che squillano l’arrivo del treno sono ben visibili sin dal fondo della piazza. Due occhi di un volto alieno, senza bocca, che urlano di correre più veloce. Occhi muti, eppure quale fracasso producono!
La piazza si rotola come un tappeto fino alle porte della stazione. Mi catapulto ai tornanti. Passo l’abbonamento. Le porte sono bloccate. Passetto indietro, passetto avanti. Si aprono.
Il primo ballo delle mie giornate è concesso vederlo solo all’inserviente che lava le scale.
Mi sorride scuotendo il capo. Il treno è già partito.
– Scenda piano le scale. È scivoloso.
Come se ci fosse ancora ragione di correre!
La banchina è vuota, spopolata, surreale. Vado a sedermi sull’ultima panchina e chiudo gli occhi. Ancora qualche attimo di pace prima dell’inscatolamento in lattine sottovuoto. Quando mi costringo a riaprirli la stazione fantasma ha apparentemente ripreso vita. La stessa vita che possono avere i trapassati sulle rive dell’Acheronte nel supplicare di essere prima o poi traghettati verso una qualche destinazione.
Sono le 7,35. Tra le anime lunghe che, come arbusti, si tengono in piedi sulla sponda, fisso lo squarcio della galleria, quel buco nero che sputa ogni giorno una speranza. Ieri era una caverna scavata da un fulmine nella roccia, la tana di un drago. Quando il treno fremente è saltato fuori di lì sibilando, dalla bocca ha vomitato anime come fosse lava.
Ora sono le 8,14. La gente si è moltiplicata in modo esponenziale, come le cellule in un embrione, e la galleria non posso più vederla. Eppure gli occhi miei, insieme con gli altri mille, fissano quello stesso punto ideale, nell’attesa curiosa di sapere quale mostro spunterà.
8,21. La panchina vibra. Il Vesuvio, che trema solleticato ai piedi, annuncia l’arrivo del vermiciattolo prima della voce del capo stazione.
Oggi il treno è un bruco. Saturo, grasso. La pesantezza lo rende lento. Sferraglia stridulo a lungo prima di riuscire a fermarsi. Le porte si spalancano esauste, stremate dallo sforzo di trattenere tante bestie. Un muggito diffuso si espande tutto intorno. La stazione sospira all’unisono al pensiero di dimenticare, anche oggi, seppure per poco, la propria umanità.
Si fa coraggio. Dà la carica alla barriera di corpi che bloccano le entrate. La voce della saggezza grida con sguaiata eleganza:
– Entrate nei corridoi, che c’è spazio!
Ma un ringhio feroce la sovrasta, abbaiando improbabili leggi della fisica. Così i tori spingono più forte, pressando le mucche fino all’inverosimile. Quando le porte finalmente si chiudono e il bruco raglia, io sono già sardina.
Sono schiacciata nelle porte e confido nella loro bontà perché non mollino la presa in cammino. Il ragazzino con lo zaino azzurro al mio fianco ha incollato la fronte e le mani pallide e ossute al vetro. Starà spiando il mondo di fuori.
Gli occhi assonnati di pesci rossi, boccheggianti in pochi millimetri d’acqua, si disperano alla vista della prossima fermata. Altra sponda affollata di anime in attesa di collocazione.
– Entrate nel corridoio, strilla l’ultimo venuto.
– Ma nei corridoi non c’è più spazio!
L’osmosi mi trascina verso il centro. Sopra di me un’infinità di dita stringono la barra di ferro orizzontale. Non saprei a quali delle mani appartengono.
Alcune sono pallide, rese esangui dalla posizione e dallo sforzo, altre grosse, rosse, gonfie, alcune sporche, altre rose dal lavoro, altre ancora sono smaltate, o fedeli ai propri anelli, o nude, o spiegazzate dalla vecchiaia. Tutte sono sudate e stanche.
Di un treno da smantellare, io salverei queste sole aste di ferro.
Altra fermata. Chi prima aveva imprecato, ora impreca più forte; chi si era rassegnato, ora ha smesso anche di ascoltare.
L’anziano signore al mio fianco, traendo da riserve insospettabili un’ammirevole dose di energia, inizia uno sproloquio sul malfunzionamento della Circumvesuviana. La signorina di fronte a lui si volta dall’altra parte, probabilmente indispettita dal fatto che, parlando e sbracciandosi a quel modo, il vecchietto stia sottraendo un’abbondante quantità di spazio e ossigeno a tutti i vicini.
– Se ero giovane io, signorina, da mo che avevo iniziato la rivoluzione.
Altre fermate, altre stazioni, altri litigi.
– Entrate nel corridoio!
– Ma quale corridoio e corridoio?! Prendete il prossimo!
– Il prossimo non c’è! – Dobbiamo andare a lavorare tutti quanti!
Avessi sentito mai la mattina di un disoccupato che prende il treno…
Prima di entrare alla Stazione Centrale sono di nuovo schiacciata nelle porte. Il ragazzino con lo zainetto azzurro è ancora incollato con la faccia al vetro. La brusca frenata gli fa perdere appena l’equilibro. Riesco a guardarlo in volto: ha gli occhi chiusi. Starà spiando il mondo che vorrebbe.
Il treno si ferma.
C’è un momento, solo nella stazione di piazza Garibaldi e in nessun’altra, che dura poche frazioni di secondo. Sono quegli attimi che intercorrono dall’istante in cui si ferma il convoglio a quello in cui le porte si aprono. È un istante interminabilmente lungo. Centinaia e centinaia di persone trattengono il respiro. Ognuno, dopo aver galleggiato sospeso nel nulla, fissa rapidamente nella propria mente la vita che sta per tornare a vivere. Ci si prepara a riprendere il proprio posto nel mondo. I cuori sono pronti a tornare a battere al ritmo degli orologi.
Il treno va in apnea.
Poi le porte cedono. La moltitudine si riversa a fiotti, fiumi di lava ribollenti, schiuma del mare che si coagula nell’onda per poi riversarsi come olio sulle spiagge strette di Napoli. La folla si muove in blocco, tutta nella stessa direzione e tu ne sei trascinato. Poi fuori si disperde. Fuori dalla stazione, il treno, quella strettoia che addensa corpi e convoglia anime, diventa tante vite.
Stasera prenderò un altro treno e sarà diverso. Non troverò più una massa indistinta, incattivita dall’istinto di sopravvivenza. Stasera prenderò il treno e con me ci saranno persone, un’infinità di persone. Ognuna con la propria storia nascosta dietro i denti, ognuna con la propria giornata caricata sulle spalle e le proprie scelte strette in mano. Le scelte, solo le scelte rendono diversa un’umanità che nasce tutta uguale. Ci svegliamo al mattino tutti allo stesso modo e alla sera siamo il surrogato della giornata, così come l’abbiamo vissuta. Solamente il treno ti mette a nudo questa verità, ti isola le due maniere dell’uomo di essere massa e individuo.
Le voci che senti nel treno della sera non sono voci di popolo, sono espressione del singolo: telefonate, racconti, conversazioni, resoconti, esami di coscienza. Le mani non si aggrappano più alle umide e attaccaticce aste di ferro: stringono borse, libri, giornali, ombrelli, valigie, chiavi, cappelli, stringono altre mani; non sono più anonime, un mucchio indefinito di dita, ma dicono tante piccole cose. E il silenzio non è quello apatico e sonnecchiante del mattino, il silenzio è ricco di storie taciute. Nelle labbra serrate di una signora ci vedi incagliati i nomi dei suoi figli, e negli occhi delusi di una ragazzina incastrate le ultime lacrime. Qualcuno, rapito, resta chino sulle parole di un libro, qualcun altro pensa alla cena da preparare, al lavoro da finire, al figlio da riabbracciare, al marito con cui litigare. Altri restano con gli occhi fissi sul finestrino e non li staccano un secondo, neanche nelle gallerie, sotto i ponti, nelle squallide zone di periferia, nelle aree industriali, mai. Perché quando è sera e fissi il finestrino, hai il privilegio, che non puoi avere di giorno, di spiare insieme il mondo di fuori e, riflesso, quello di dentro. E nulla è più bello che vedere se stessi sferragliare per il mondo, inscatolati in una lattina, ultima scialuppa che può salvarci dalla schiavitù del tempo.
La folla mi strattona. Lì, ferma a fissare la vita ancora informe, sono fuori luogo. Torno a lasciarmi trascinare, corro anch’io, io pure spingo. Alienata da questa eterna e sempre ingiustificata fretta che ci grida di andare più veloce, sempre più veloce, ci rende tutti ritardatari, fuori tempo, e infine non ci porta da nessuna parte.
Ma c’è quel treno, alla sera. Quel treno, in ritardo anche lui, sempre in ritardo. In ritardo perché mi aspetta, in ritardo perché non vuole lasciarsi indietro nessuno. Quel treno, quella placenta buona, madre di oblio, immobilità sempre in cammino.
CHIARA POLESE