Questa è una storia sbagliata. La storia di una vita recisa.
Rompe i contorni di una foto sbiadita il suono di passi violati da una condanna. Una condanna che strappa, invade, distrugge lo spirito di volti silenti. Coscienze in rivolta, mani congiunte, sguardi sospesi: si riversa lungo le strade di Torpignattara un corteo funebre. Un adunanza di spettatori rabbiosi, ma impotenti. Uomini, donne, bambini smarriti che si lasciano cullare dall’oblio squilibrato del vivere a metà. Stretti fra una terra inospitale e un cielo inaccessibile, cercano riparo tra le crepe di un muro bagnato: c’è chi nasconde lo sguardo umido tra le frasi di un breviario appassito, chi insegue le curvature di una pianta rampicante. Nessuno vorrebbe guardare, eppure, uomini, donne e bambini avvertono l’inganno della giustizia come una coltellata che trafora lo stomaco. Ognuno di loro deve voltarsi alla dolenza.
Questa è la storia di una vita condannata, logorata, consunta e, purtroppo, esistita. Un ragazzo è lì, il suo corpo è reale, ma vuoto. Stefano non può più presenziare.
La parola morte dovrebbe indicare una fine. Ma cos’è una fine? Il dolore è senza tempo. Fermo, immobile eppure dinamico. Dinamico per ricordare le trame di una vita sfiorita, distrutta, eppure, viva.
Gli occhi di Stefano incrociavano spesso sguardi ostili e movimenti tristi. Restava incompreso e infelice ma, comunque, sempre incline all’incontro. Stefano detestava gli scontri. Viveva da ultimo e amava ascoltare. Ascoltare, pensava, è una forma d’espressione e lui preferiva esprimersi così. Ascoltava il pavimento freddo con la superfice dei suoi piedi nudi. Percepiva le parole a cuore aperto e, molto più spesso, si faceva raggiungere dai silenzi inospitali, quelli che bucavano, veloci e distratti, i confini di suoi pensieri irregolari. L’incomprensione altrui, bruciante e sovente, finiva spesso per violentargli l’animo, il dolore era diventato una questione di sopravvivenza. Era l’unico modo per sentirsi attraversare dalla vita.
Ma infliggerlo al prossimo non gli sembrava giusto. Farsi del male gli parve l’unica soluzione possibile. Presto, una passione promettente si fece largo tra la nebbia della sua vita, squilibrata e confusa: la boxe. Stefano cedeva alla boxe con la forza di una fede. Le aveva consegnato ogni suo peccato, rimpianto, pentimento. Le aveva affidato goccia dopo goccia tutto il suo sangue amaro. A furia di prendere a pugni un sacco inanimato sperava che un giorno avrebbe potuto liberarsi, sprigionando la bellezza e allontanandosi dal male. E poi quelle crisi epilettiche che, forse, causate dall’impossibilità e dal desiderio di delineare candidamente la propria identità, si presentarono a scuotergli il cervello. All’epilessia si aggiungevano con violenza rabbia, gioia, passione, inadeguatezza. L’umanità senza censure aveva raggiunto anche lui. Contribuiva a renderlo confuso, ma non più del disprezzo e dell’indifferenza che gli altri mostravano nei suoi riguardi. Dentro quel pugile dall’andamento sbilenco si nascondeva l’anima di Stefano. Una stanza morbida, accogliente, spaziosa. Stefano aveva spazio per tutti, ma nessuno sapeva restare. I passi violenti dell’addio echeggiavano nel mare senza fondo né superficie della sua anima con la potenza di un fuoco appiccato con la benzina su una sterpaglia. Solo e smarrito Stefano trovò riparo in Lei.
Lei con il suo viso da bugiarda, Lei che era lì ad attenderlo, paziente, sul ciglio della disperazione. Quella di cui conosceva il nome e non gli effetti, il prezzo ma non il costo. Era lì ammaliante, suadente.
Era lì, bellissima, La Sostanza.
Quella che una volta assunta era riuscita a cacciargli le parole ingombranti fuori dai denti, e la rabbia sopita, anestetizzata dal buon senso, quella che aveva scatenato la ribellione di Stefano verso una Terra che non gli aveva consentito di essere ciò che era. Quella che l’aveva apparentemente salvato da una solitudine violenta e insopportabile. La droga era la risposta a ogni sua domanda, la sua unica amica. Un’instancabile confidente. Stefano pareva non avere più bisogno di nessuno. La Sostanza era tutto. E perciò finì per dimenticare quel calore umano che tanto aveva ricercato. Non vedeva più suo padre e la sua impotente disperazione, non vedeva sua madre chiusa in un silenzio che faticava a trovare le parole adeguate, non vedeva più sua sorella e quel dolore negli occhi che si era trasmutato, presto, in una rabbia sconfinata.
Tanto clamore, agitazione, disperati tentativi di comunicazione. Ma cosa avrebbero potuto dirgli? Stefano aveva amato la vita più di ognuno di loro. Non c’era stato giorno che non avesse rivolto il suo sguardo verso il cielo, per mirarne l’azzurro carezzevole. Non c’era stato giorno che non avesse provato a lenire le anime delle persone incontrate. Non c’era stato giorno in cui Stefano non s’era fermato per fotografare con i suoi occhi lividi la bellezza dell’alba e del tramonto. Non un solo giorno in cui non aveva ammirato il dileguarsi delle nuvole che corrono veloci per cedere il posto alle prodezze del sole. No. Nessuno l’aveva compreso, tutti gli avevano voltato le spalle, come fosse la vergogna del suo quartiere, Torpignattara.
Tutti sì. Tranne la droga. Per questo, alla fine, aveva ceduto. In lei credeva di aver trovato cura, accoglienza, riparo. Colmo di Lei si sentiva forte. Sicuro.
Ma la droga è beffarda, prima indurisce le pareti del cuore e poi le distrugge. E una volta distrutte, poi, bisogna fare i conti con il sangue che ne fuoriesce, con gli impulsi scomodi e inaspettati, con la lacerazione di ogni organo, perché la droga si nutre del sangue umano come un predatore fa con la sua preda. E non ti lascia, no, non ti lascia, almeno fino a quando non sei tu a lasciarla o è la morte a farti abbandonare l’ago.
E Stefano l’aveva capito. Non voleva lasciare la sua vita, lui voleva solo l’opportunità di viverla dignitosamente. Per questo si era trascinato in un SERT. Lì, almeno, avrebbero spalancato le porte vedendolo arrivare, pensava, «lì mi potranno ascoltare». E invece no. Dosi di metadone strisciavano nel suo sangue, subdole e sfacciate. La vita era restata fuori anche da quella porta. Non un grammo di umanità che potesse colmare il vuoto che gli dilacerava il cuore. Stefano, come sempre, cercava compagnia nei suoi tormenti infiniti. «Io sono un uomo, non sono la droga che assumo», pensava confuso. Resisteva Stefano: voleva tornare a guardare l’alba senza che i suoi occhi ne distorcessero i confini, senza che la sua bocca bramasse acqua e droga, senza che il suo cuore lo minacciasse continuamente di fuoriuscirgli dal petto. Ma non ce l’ha fatta. No. Stefano non ce l’ha fatta. È crollato. Come crolla un castello di sabbia o un palazzo durante un terremoto. Stefano abbandona la cura. Ad attenderlo solo la boxe, la sua Sostanza e una morte delegata ad altre mani.
Lo abbiamo detto. Questa è la storia di una vita condannata, sì. Ma non dalla droga.
Ottobre. In una notte privata di stelle il corpo di Stefano deve fare i conti con la disumanità degli esseri umani. Il suono di sirene spiegate conduce quel pugile sbilenco alle porte della vita. Ad attenderlo tre uomini in divisa arsi dal desiderio di imporsi e di imporre il loro potere, la loro negligenza. Stefano è un fragile tossico, questo basta per pestare a sangue i passi dei suoi trent’anni di vita.
Potere della divisa.
Nessuno scatto a sancire il suo arresto, nessuna verità per restituire a Stefano la dignità violata. Solo un perforante silenzio potrà risvegliare uomini, donne e bambini. Un volto tumefatto è scomodo da mostrare, la verità va nascosta fin quando si può, è la legge dei codardi, è la legge dei presuntuosi, è la legge dei senza cuore, quella dell’omertà. Stefano è stato picchiato, massacrato, imprigionato, abbandonato. Stefano ha patito molti mali prima di morire, accompagnato dalla solitudine in ospedale, sei giorni dopo l’arresto, ma l’indifferenza è stata il peggiore assassino.
In una società in cui ci hanno insegnato che dubitare è reato, Stefano ha compreso invece che dubitare è l’unica vera possibilità di svolta. Ha vissuto gli ultimi suoi giorni tra violenze e agonia ma è stato finalmente felice. Perché ha avvertito il calore di una carezza invisibile pur essendo solo. Perché ha compreso il valore. Il valore di uno schiaffo e quello di una carezza, il valore dell’acqua e quello della sete, il valore del pane e quello della fame. Il valore di una sconfitta che talvolta è una vittoria.
Uomini, donne e bambini, stretti in un corteo silente, finalmente dubitano, e si lasciano investire dai dubbi di Stefano, quel ragazzo schivo, che non erano mai riusciti a comprendere davvero. Capiscono ora che essere colpevole è diverso dall’avere una colpa e che errare non vuol dire essere un errore.
Stefano, inconsapevolmente, ha aiutato uomini donne e bambini ad evacuare la drasticità del pregiudizio. La sua morte ha zittito tante parole e stimolato altrettante riflessioni.
Quegli uomini, quelle donne e quei bambini hanno capito che chiedere aiuto non è una dimostrazione di debolezza ma l’ultimo rantolo di una forza negata. Quegli uomini, quelle donne e quei bambini hanno finalmente capito che per restare umani basta mettersi in ascolto, e considerare valore ogni singola forma di vita.
Grazie Stefano.
Maddalena Dobellin