Visioni di una pulce

È la sensazione che mi preme addosso da sempre: sentirsi una pulce tra giganti. Sembra di vederla la vita, che mi passa dinanzi mentre io, troppo piccola per poterla afferrare, ne assaporo il gusto tra i volti e i gesti di chi invece la vive davvero. È per questo che in treno, compagno infedele degli ultimi anni, nei suoi ritardi perenni, nelle attese logoranti, nei ghirigori di strade sconosciute ho avuto il tempo necessario, quello giusto, di vivere più vite di quelle che avrei avuto il gusto di immaginare, o meglio, il coraggio di affrontare. Non ho bisogno neanche di mettermi in punta di piedi, di chiedere permesso, di spingere per farmi spazio: tutto mi è davanti e non mi resta che procedere.

È un giorno come un altro: sono in ritardo di nuovo e l’ ansia di chi sta perdendo tempo, mi accompagna. La stazione è uguale a quella di ogni mattina: eppure, mi ripeto come un mantra quanto sia diventata poetica. Poi, in gran segreto, ammetto a me stessa, che forse sto semplicemente invecchiando: quello che mi circonda inizia a sembrarmi bello, armonico, a misura per me. Il controllore mi ringrazia per il sorriso che gli rivolgo, viatico per la sua giornata. È un viavai di giovani che attendono di andare a scuola e in quel preciso istante, assonnata e annoiata da quella routine che scandisce anche i movimenti del corpo, inizia la passerella di personaggi che salgono e scendono dalla mente, compagni di viaggio mai più dimenticati. C’è un vecchio, piccolo e tondo, la signora che ogni mattina, pimpante ed energica come se avesse dormito per tre giorni di fila, dà il via al suo sfogo su questo mondo che proprio non va, il gruppetto di ragazzine pronte per andare a scuola. Sono sempre troppo truccate, troppo preparate: ogni attimo potrebbe essere fatale, chissà che a quell’angolo di strada non ci sia ad attenderle qualcuno che già desiderano senza saperlo. Mi ricordo allora del rossetto che velocemente ho messo prima di scendere e mi ripeto nuovamente che sì, è proprio così, sto invecchiando: nessuno più troverò negli angoli delle strade ad aspettarmi. E anche se ci fosse, mi direi che il rossetto è sbavato per non avvicinarmi, o un’altra scusa qualsiasi, pur di defilarmi tra la folla e osservare invece di vivere.

Altra gente sconosciuta si affolla prima della linea gialla, pendolari incostanti che di tanto in tanto affiorano nel mezzo della massa conosciuta e si lasciano guardare per un po’; il tempo di stampare pure loro nel vorticare dei miei giorni. Sembra di vivere in una metropoli: da dove esce tutta questa gente? Da dove sbuca? Dovrei chiedermelo nei pomeriggi di noia, in cui Somma mi appare un deserto senza via d’uscita. Nell’attesa del treno, forzandomi di stare sveglia, inizio ad abbandonare la mia solita pigrizia, ed è lì, nell’osservare il giorno che nasce, che comprendo di essere fortunata: mi restasse anche solo il tempo di osservare nella vita, mi basterebbe. Non lo sanno, ma per tutti ho una storia, non è scritta, troppa fatica per una pigra tendente all’inettitudine, portare a termine ogni cosa pensata, ma la storia c’è, in qualche meandro resiste ancora. Come le vite immaginate dietro le luci accese delle finestre, osservate in autostrada: anche lì, col pensiero, ho passato ore a tesserne le trame.

Il treno finalmente arriva, è in ritardo, o semplicemente si adegua ai suoi passeggeri. In realtà ci conosce, non fa che attenderci. Che noia sarebbe per lui fare un viaggio vuoto, senza i nostri racconti. Stipati come sardine prendiamo posto: il chiacchiericcio intorno è di buon auspicio. La gente è affamata di vita: non si è perduti quando c’è la parola. Da quale lato tenderò l’orecchio? Quale storia mi sembrerà più interessante? Qualcuno odia il suo lavoro, qualcun altro il marito, qualcuno l’università. Routine, routine, routine. È strabiliante notare come l’essere umano si somigli e come la storia della sofferenza umana si ripeti  uguale a se stessa. Lo diceva il mio Adriano nelle sue Memorie, anche quando si saranno alleviate le sofferenze peggiori, resterà vincolata all’uomo, per tenere in esercizio la sua mente, una serie di dolori, anche i più banali, ma vitali. Sempre quelli.  

Sembra interminabile un viaggio quando c’è qualcuno al capolinea: una barba rossa mi tiene compagnia, semi-feticcio dei miei ultimi giorni.  L’attesa me ne fa immaginare i contorni del volto, meno belli di quelli che mi attendono. Assaporo già quello che sarà, troppo impaziente per accettare che il tempo deve pur fare la sua parte. Bambini rom volteggiano nel treno: uno è completamente sfigurato a causa di un incendio. Mi volto dall’altro lato, non mi riesce di guardarlo, come per ogni cosa di questo mondo che non è come avrei voluto. Sguardi diversi mi si stagliano dinanzi, svegli più di prima, incollati  al posto in cui si trovano, ignari che quest’attesa ha qualcosa da dire loro. Quanta parte del nostro cammino fugge via con l’impressione che poco o niente sia stato compiuto, che abbiamo sprecato momenti, ore, minuti: avremmo potuto fare qualcosa in più. Non stiamo a chiederci se pure un posto a sedere in una circumvesuviana fatiscente possa cambiarci la giornata: se quel qualcosa in meno di cui tanto ci rammarichiamo abbia lasciato in noi una briciola di inconsueto. Perder tempo è un lusso che ci è concesso ancora, una culla per viziati e coccolati che non sanno quanto sia prezioso il dono di essere normali. Mi ricordo di Pessoa, del suo eteronimo Bernardo Soares che sceso dal tram aveva il mal di testa: aveva vissuto in quella minuscola porzione tutta la vita ricostruendo la storia del vestito di una sconosciuta, immaginandone l’origine lontana, il tessuto, il lavoro, la scelta.

Scendo anche io: cauta nel destreggiarmi nelle miriadi di vite nelle quali mi sono impigliata. Sfiorandone con gli occhi i rami, anche oggi avrò qualcosa da raccontare.

Giusy Aliperti

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