Treni senza metafore
Eccola lì. Questa è già la seconda che mi segue col telefono. Crede di star camuffando bene la cosa, ma si vede benissimo che l’oggetto del suo interesse sono io.
Un’altra ragazzina del corso, non si è accorta che anch’ io frequento quel gruppo di stralunati, mi vede così strambo a leggere uno dei miei libri tristi, e pensa davvero che io possa essere un argomento interessante per le sue riprese metropolitane.
“Tutto può essere qualcosa di bello, se è degno della vostra attenzione! Qualsiasi sciocchezza, se la riprendete, se la bloccate sullo schermo, può diventare un’opera d’arte”. Così suona di continuo l’insegnamento della prof, ovviamente tutto parafrasato e MOLTO sintetizzato dal sottoscritto.
Ancora lì, che riprende la realtà, che si illude oggi di aver rubato alla grande madre che chiamiamo Reale un piccolo ma significativo figlio. Ritorno immediatamente sulla frase precedente, e mi accorgo che l’ossessione metaforizzante ha contagiato anche me, una terribile, a tratti adorabile, estenuante moda barocchista imperversa nel mondo dei giovani e promettenti scrittori. Un’epidemia. Ed è anche tutto così ingenuo, ricchezza e fantasia nell’esposizione, vero desiderio di abbellire il mondo, e non retorica interessata a colpire il lettore. Gorgia non sarebbe affatto fiero di loro.
Certo, “grande madre che chiamiamo Reale” suona molto meglio del semplice “realtà”; e di sicuro “piccolo figlio del Reale, che si immette nel vorticoso fiume metallico del divenire alla ricerca della profonda essenza della vita” è preferibile a “un piccolo squallido borghese che prende un grigio squallido treno alla ricerca delle azioni ripetitive di una squallida giornata normale”. Sì, d’accordo, è cacofonica, ma questa è la realtà. Io non significo niente, e così come qualsiasi altro oggetto è inutile riprendermi. Un treno è un treno, e resta un treno. Non si trasforma in un drago, un bruco, il vortice del divenire o qualche altra favola. “Sei un gretto realista, non riesci a vedere le cose con gli occhi della tua interiorità!” gridano gli stralunati, e che la realtà è orribile così come è per me. Beh, mi dispiace, ma è quello che ho sempre rimproverato a Leopardi, e sto parlando di Leopardi. Immaginare e trasfigurare le cose, renderle “vaghe e indefinite” solo grazie alla parola, per sfuggire all’”arido vero”.È tutta illusione, io lo so, e lo sapeva bene anche lui. Un treno. Cosa è un treno? Un treno non è nulla in sé, è solo un mezzo; e in letteratura? Un pretesto. Prendi Pirandello: il treno è il mezzo attraverso il quale la novella può realizzarsi, il punto di svolta, il passaggio tra la forma e l’irruzione della vita, e come rapporto tra due eventi non esiste in sé, da solo. Ebbene, per me il treno non può esistere, perché non vedo alcuna vita al di là del treno, non mi assale alcuna irruzione quando il mostro di ferro ruggisce sferragliando (è inutile resistere, ormai il Barocco è in me). Mi porta solo da una noia all’altra, da un niente all’altro. Un rapporto tra due cose che non esistono, viene necessariamente meno; il treno è come il presente, lo viviamo, ci muoviamo dentro di esso, eppure non esiste.
Ciò che esiste, cara ragazza-cameraman, è tutto fuori del treno, quando i vagoni sono in movimento. Ma devi guardare ora…ora! Adesso…ora! oppure te lo perdi. Quel magma indistinto che vedi là fuori, che puoi anche filmare con le più sofisticate tecnologie più superlative e futuristiche, ma non riuscirai mai a bloccare, a dargli forma e significato. Tu sei lì a perdere tempo filmando ciò che è già filmato, bloccando ciò che è già bloccato, questo confuso fluire che è la vita imprigionato nella mia coscienza, la mia maledizione, che tende sempre a essere qualcuno, e cambia ogni giorno anelando sempre alla immobilità, alla forma.
Ti prego, non pensare più a me o al treno, guarda fuori.
Voltati.
Giancarlo Riccio