PASSEGGIATA  SILENZIOSA

Sono appena ritornato da una visita medica; il Dott. Hallway, uno dei più validi di tutta New York, mi ha riscontrato una lieve artrite reumatoide.

Mia madre ha preparato il mio piatto preferito,il roast-beef con le patatine, che prepara solo per consolarmi o alleviare la mia ira in giorni particolarmente stressanti. Lo divoro con voracità puerile.

Non immaginavo certo quale verità nascondesse quando vidi i suoi occhi neri  ebano ritrarsi così sospettosamente sotto le ciglia, e le sue lacrime rifugiarsi ancor più addentro quando mi porse il piatto con i frutti di stagione. « Riesco ad annusare  la primavera in queste fragole».

« Che il Signore ci aiuti!», monologò sottovoce George, uomo sulla sessantina saggio retrogrado legato ancora ai vecchi valori di casa, di famiglia, un nuovo ‘Ntoni dei Malavoglia che vorrebbe sempre la famiglia unita e compatta al suo fianco. Io e mio padre abbiamo un rapporto difficile, scontroso forse proprio perché siamo entrambi testardi e cocciuti.

Con viso turbato mi passa l’insalata, che avevo chiesto dieci minuti prima, ma i suoi pensieri sul mancato raccolto lo avranno alienato dalla cena.

Il divano del salotto mi sembra l’ideale stasera per mettere a tacere questo fastidiosissimo dolore alle gambe, ma ho troppo da fare per concedermi questo lusso. Devo riordinare il guazzabuglio di faldoni che occupa illegittimamente il tavolo di pino, imponente al centro della stanza .Scrollo il capo e prendo la tazza di tè che mia madre mi ha gentilmente lasciato  sul davanzale della finestra affinché fumante potessi berlo tiepido. Poggio i gomiti sul tavolo, il mento sulle mani per cercare di sorreggere la stanchezza di giornate interminabili. Tic tac.  Il ticchettio dell’orologio, che segna lo scorrere inesorabile del tempo,  mi ricorda il mio impegno giornaliero di riposare almeno otto ore. Alzo gli occhi e bevo un altro sorso. Incrocio le braccia che man mano scivolano sul maestoso pino.

Il sole di primavera, il canto degli uccelli e l’aroma del caffè accompagnano il mio risveglio, «anche stanotte ho riposato male, colpa di questi nuovi materassi ortopedici di nuova generazione che strapazzano solo le articolazioni».

Oramai sono quaranta minuti che il traffico di questa grande metropoli mi tiene bloccato. Parcheggio nel vialetto, sospiro e mi sottraggo la gamba che mi fa ancora male.

«Brendon», sento la voce di Mike prima ancora di vederlo. «cosa ci fai ancora qui?» mi chiede con tono accusatorio. Saetta il mio sguardo stranito e il tribunale brulicante di cause. Oggi una di quelle esige la nostra presenza.

«Signor Presidente, signori della corte avete di fronte a voi il ritratto dell’innocenza. Miss Steele era in compagnia di un’amica quella sera del 13 aprile del 2013, hanno alzato un po’ il gomito, ma questa non è la prova del delitto commesso quello stesso giorno nel bar della signora qui presente e moglie della vittima», con queste parole Mike chiude la sua arringa.

«Eppure oggi potrei andare da Jessica e farle una sorpresa, potremmo fare un giro in macchina e magari.. »Mike avvicina le labbra al mio orecchio con respiro caldo mi dice: «Cavolo Brendon ma a cosa pensi? tocca a te!».

Mi alzo di scatto trascinandomi a fatica le gambe intorpidite. Farfuglio sillabe imprecise, tiro un respiro profondo e così inizio l’arringa che squarcia le mura dell’aula, schiodando gli astanti dalle loro posizioni. Mi accorgo che Mike sorride da lontano, riesco a leggere il suo labiale: «ce l’abbiamo fatta».

Un’ora e due cocktail dopo, sono di nuovo in ufficio con Mike per fare il punto della situazione sulle prossime sentenze. Mi siedo a gambe incrociate, sorseggio il caffè amaro delle macchinette cercando di restare attento e vigile. Improvvisamente gli occhi semiaperti si sgranano sulla vetrata. «Che spettacolo!». Il tramonto poggia come una mantella sulla coloratissima New York . Una cartolina meravigliosa si presta ai miei occhi che in fondo conoscevano solo un abbozzo fotografato dalla vetrata dell’ufficio o dai finestrini della BMW blu. Quella città muta mi chiedeva ora di guardarla.

«Pronto Signor Sterne l’appuntamento è alle ore 10 di domani 15 marzo», dice la segretaria del dott. Hallway. Una telefonata improvvisa  spezza quel magico riverbero.

«Questa città è caotica anche alle prime ore del giorno, la città che non muore mai». Infilo un cd di John Lennon e mi avvio verso lo studio medico.

Il risultato delle analisi è a dir poco agghiacciante; il dottore ha voluto svelarmi l’arcano degli strani dolori e formicolii alle gambe. Perdo l’uso della parola, raccolgo le mie cose, le mie poche speranze di poter ancora camminare e mi rimetto alla guida accompagnato da mille pensieri. Solo allora mi rendo conto di non aver mai goduto , mai valorizzato un dono così speciale celato dalle comodità delle underground e delle vetture. Questo è il secolo delle corse senza tempo, che senza esclusione di colpi getta le persone nel baratro dell’indifferenza.

Percorro dieci, cento, mille miglia. Le lacrime che grondano incessantemente sul viso e il sole accecante del tramonto mi costringono a fermarmi. Sento il fragore odoroso del mare.

Guardo, scruto minuziosamente il movimento delle gambe come se quelli fossero stati i primi passi, o forse gli ultimi. I piedi che affondano nell’arena calda e avvolgente lasciano piccole orme. Studio quelle impronte silenziose. Corro affinché diventino tante ma le onde del mare cancellano quasi subito quel segno labile della mia inerzia. L’orecchio all’unisono col cuore mi permette di afferrare per la prima volta un suono inascoltato. Finalmente odo i miei passi, la passeggiata  silenziosa ha un suono speciale. Gli occhi come gazze ladre rubano immagini inedite, le orecchie incassano colpi di tamburo. Quel suono inascoltato si insinua nei timpani strattonando rumori di clacson, lo sferragliare dei treni, rombi di motori. Aleggia comodamente sulle note del passato, riabbraccia il ricordo di un’infanzia fatta di cenci sporchi, piedi nudi e corse senza meta. Odo il sapore di quel momento. Esco da quella scena extracorporea.  

Porto le mani alla fronte, inarcate a forma di visiera. Intravedo in controluce il blu scintillante della mia auto parcheggiata sul ciglio della strada. Volto le spalle passeggiando a piedi nudi sull’asfalto.

I passi, sempre più risoluti, diventano il boato di una passeggiata silenziosamente chiassiosa.

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