Il canto della sirena
Non saprei dire di preciso quando l’ho sentita, nei miei ricordi si confondono le volte in cui il suo dannato suono ha interrotto il mio sonno, o mi ha scosso dal torpore dei miei pensieri notturni.
È soprattutto di notte, che il suo richiamo risuona da luoghi lontani, ma familiari, percorre fulmineamente la distanza fino alla finestra della mia stanza all’ultimo piano, il quinto, mi penetra le orecchie e rimbomba nei timpani come un martello pneumatico; scuote i sensi: dapprima, ovviamente, l’udito, poi la vista, degli occhi che si aprono di scatto a rincorrere le ombre vaghe e multiformi, che la luce dei lampioni o dei fari delle auto in corsa proietta sul soffitto.
Si scuotono gli arti, il tatto reclama il suo primato: le mani stritolano il cuscino, si aggrappano avidamente alla consapevolezza della vita, di essere lontane da quel suono foriero di sventure ormai consumate.
L’olfatto e il gusto si accontentano, sfortunati cadetti della sensuale progenie, di assaporare l’aria gravida di pioggia acre.
Stavolta invece no, il suono ora è vicino: lo sento sulla pelle, sotto i vestiti, nelle tasche dei jeans, sulle panchine del parchetto in fondo alla strada, testimone silenzioso e complice di giochi, risse e baci rubacchiati, nei giorni che non sono più.
C’è il sole, stavolta.
Le nuvole dell’inverno sono state soffiate via con virile eleganza da un primaverile vento tenue, tiepido messaggero di un’estate ancora lontana dal venire.
Quando le sirene suonano il loro canto di notte, pochi accorrono al loro richiamo, che viaggia più veloce e libero nell’aria, fino a disperdersi in luoghi dove la luce non arriva, si infrange sugli ostacoli che l’uomo ha eretto a barriera fra sé e il mondo esterno, dove si illude di essere al sicuro, lontano dalla giungla di violenza che brulica sotterranea alla quiete apparente delle nostre città.
Il suono riesce allora a prendersi rivincita della luce, che viaggia incomparabilmente più veloce, ma si arresta e cede il passo all’etereo passeggio del primo, che corre, si arrampica, scavalca i palazzoni e le vette più alte, e stupra i padiglioni auricolari degli uomini a riposo, li strappa al loro giusto sonno, e gli ricorda con violenza che il mondo fuori dalle loro abitazioni vive, e muore senza mai fermarsi un istante.
Non così di giorno, quando Partenope confonde il suo lamento nel brusio di fondo che accompagna senza sosta il corso della vita quotidiana, ora frenetica, ora rilassata: uno sciame di api operai, impiegate, commesse, studentesse, malandrine, artiste, bottegaie, precarie, casalinghe, canterine e camorriste, e chi più ne ha, più ne metta, nell’eterno calderone umano che ribolle del sangue di chi ha edificato queste strade e queste mura, di chi depone speranze e illusioni nell’urlo lancinante di una lampeggiante arpia.
Mi sento adesso come un punto nero che vaga in uno sconfinato spazio bianco, una grumosa macchia d’inchiostro su di un infinito foglio bianco, una macchia scura, anzi rossa, che spargendosi sporca il candore di un luogo sconosciuto e perfetto, in cui non sono mai stato, ma che in qualche strano modo non mi è nuovo, e non mi spaventa, mi consola addirittura.
La sensazione dura poco.
I sensi, prepotenti, riprendono le redini dell’esistenza, di quel che ne rimane.
Gli occhi, spalancati, ammiccano al sole del mattino; le orecchie percepiscono i rumori della strada: le voci della gente accorsa ad indagare la scena dell’incidente, spettatori non paganti del grand guignol, i singhiozzi dell’automobilista che imprecando si dispera.
La lingua e le narici sono occluse dalla morte, assaporano il sangue che ha invaso luoghi che non gli appartengono.
Il corpo intero, nei punti in cui ancora scorre un po’ di vita, percepisce l’asfalto inondato di sangue; la mano stringe istintivamente la tasca, a cercare il cellulare, in un gesto ormai meccanico, che si riempie di un significato nuovo, originale e reale.
Finalmente la materia si è accordata col pensiero; il corpo collabora con la mente, o almeno vorrebbe.
Vorrebbe comporre il suo numero, e dirle che non importa più il passato, ma solo il presente e il futuro; che non importano più i litigi, il dolore, i pianti, le urla e le ansie, ma solo il suo sorriso, i suoi sguardi timidi, il suo corpo stretto al mio, al punto da diventarne parte integrante.
Vorrebbe urlare a squarciagola che il tempo che resta a entrambi, lungo o breve che sia, vorrebbe trascorrerlo al suo fianco.
Vorrebbe, ma non può…
Matteo Napolitano