Epifania

Ore 22:30.  La stazione sembrava sempre più grande. Non solo il tempo pareva allungarsi, con ogni rintocco di lancetta incessante, greve, nel suo procedere lento e stanco, ma anche lo spazio si distendeva.  Destra, sinistra.  La galleria si piegava nel mio sguardo assopito e si contorceva come un millepiedi aggrovigliato su se stesso.


22:35.
Nessun fiato di vento era capace di smuovere quell’aria densa di calore giornaliero.  Erano passate mandrie di giovani,  pensionati fiacchi, donne e uomini, bambini e animali. Avevano respirato e camminato, avevano riso, fumato,  tossito, starnutito e l’aria aveva conservato le tracce del loro passaggio. Erano quasi palpabili i volti della moltitudine in quel placido silenzio assonnato.


22:40.
Speravo di sentire l’assordante fischio, desideravo il graffiante suono delle rotaie che mi avrebbe fatto sanguinare le orecchie ma almeno mi avrebbe ricondotto a casa. E invece il peso del silenzio continuava a incurvarsi sulla mia figura isolata. Sentivo quasi il mio corpo fondersi in quella struttura.  Ne ero parte ormai,  da mesi dopotutto ero l’ornamento di quelle panchine.

Mia madre aveva l’abitudine di spostare l’argenteria, lo faceva due volte durante il giorno. Prendeva gingilli e suppellettili li poggiava in un angolo del salone, accanita spolverava ogni angolo della casa  e, quando era soddisfatta del suo operato, riprendeva tutto e lo collocava al suo posto, insostituibile,  ovviamente. 

Io ero come quel posacenere rotto e aggiustato mille volte. Passava dal davanzale dove regnava solo e finiva nell’angolo,  insieme a cornici, statuine,  e ciarpame di vario genere per poi tornare sul suo davanzale in attesa malinconica che lei arrivasse e lo riportasse nella moltitudine.


22:45
. Su quella panchina fredda io ero il posacenere. Aspettavo solo che il treno, mitologica figura ormai, arrivasse e mi riportasse nel flusso un po’ sgangherato della mia vita. Senza volerlo avevo appena paragonato un affare pesante e di ferro a mia madre, e le prospettive d’analisi su quella metamorfosi madre/treno non potevano che apparirmi inquietanti nel Silenzio spettrale della fermata.


22:50.
A pensarci meglio non era inquietante, non lo era affatto. Metropolitana,  madre dei viaggiatori.  Ecco adesso si che la metafora acquistava un nuovo significato.  Tutti noi nasciamo in seno a una madre, è forse sbagliato pensare che la nostra nuova culla si trasformi in un treno? Dondola,  ondeggia, a volte dormiamo e sobbalziamo, altre piangiamo o pensiamo e, come in una culla, lentamente ci facciamo portare.


22:55.
Quanta banalità.  Erano pensieri futili, davvero. Ripensai a ciò che in quei 25 minuti avevo lasciato scorrere nella mia mente e nulla aveva un reale senso. Parole vuote e metafore spicciole. Era l’attesa del treno, l’aria oppressa di una giornata trafficata dall’andirivieni meccanico di passi e rumori sempre uguali.

E come sempre in quella banale attesa ogni pensiero si appia….


22:58.
È finito. Il divagare,  l’attesa, il silenzio, i pensieri in corsa impazzita, le banalità,  le digressioni, la noia.


23.
Si chiudono le porte… è iniziato.  Il divagare,  l’attesa,  il rumore,  i pensieri in corsa impazzita, le banalità, le digressioni, la noia.


23:02.
  “Si avvisano i viaggiatori che questo treno terminerà la corsa nella stazione di Napoli Campi Flegrei”


23:03.
E invece, non finisce mai. La riflessione, il viaggio, e quella filastrocca di pensieri e digressioni non troverà una reale e materica conclusione. Non puoi fermare il chiacchiericcio ossessivo della tua mente, non puoi assopirlo, non puoi ignorarlo. Puoi prendere quei pensieri, lasciarli sfuggire via, affidarli alla solitudine d’una metropolitana assonnata, o alla confusione d’un treno affollato. Puoi lasciarli li, custoditi da quella struttura silenziosa, incubatrice di pensieri, e raccoglierli il giorno dopo, quando nuovamente le porte si apriranno.


23:15.
Stazione di Campi Flegrei.  Inizio.

Giuliana Mastroserio

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