
di Maria Baiano
Iole era una ragazza come tante altre, ma esisteva in lei un amore incondizionato che chiedeva con forza di essere espresso, manifestato. Tutti i giorni. Dopo le lezioni, si recava nella casa di riposo del suo paese e qui trascorreva la parte restante della giornata ad alleviare le pene di questi esseri ormai lacerati dall’estrema solitudine, più che dagli anni di una vita ormai giunta al termine. Era un lunedì, le lezioni terminarono con un’ora d’anticipo e Iole non stava nella pelle. Quel giorno, infatti, alla casa di riposo sarebbe arrivato un uomo molto noto giù in paese. Si diceva fosse un celebre scienziato e che in seguito alla morte del primogenito avesse iniziato a manifestare segni di squilibrio mentale, per cui la moglie, d’accordo con il resto della famiglia, aveva deciso di affidarlo all’istituto. Iole non era solita limitarsi ad intrattenere gli anziani. Il suo scopo era quello di accompagnarli negli ultimi stadi della loro vita, di condurli verso la guarigione dell’anima, le cui ferite dilaniano l’essere molto più delle cicatrici del corpo. E l’anima del sig. G. di ferite ne aveva davvero tante. Giunta nella stanza, Iole cominciò a cercare l’uomo con lo sguardo. Non le risultò difficile scorgerlo. Se ne stava lì, seduto nell’ angolo più remoto della camera, col capo chino tra le mani, assorto tra chissà quali pensieri, a cercare rispose a chissà quali interrogativi. Iole gli si avvicinò e con l’estrema dolcezza che la contraddistingueva, così gli si rivolse: “ Salve. Io sono Iole e sono qui per qualunque cosa lei abbia bisogno”. Il sig. G. alzò lo sguardo, la fissò per un istante, ma subito dopo ritornò ai suoi pensieri, lasciando quelle parole lì, sospese, a mezz’aria. Iole capì che l’uomo aveva bisogno di stare da solo, non era quello il momento giusto, e così gli si allontanò, dedicandosi a tutti gli altri anziani per il resto della giornata. I giorni passarono, le settimane passarono, ma il sig. G. continuava a starsene lì, ormai sempre più debole e deciso a lasciarsi andare. Iole non poteva restarsene a guardare, così un giorno si fece coraggio e decise di riavvicinarsi a lui. Sapeva che il dolore dell’ uomo lo avrebbe condotto alla morte prima del previsto. Era necessario riuscire a far sì che se ne liberasse, o che almeno lo alleviasse, e quale modo migliore se non quello di tradurlo con le parole, di recuperarlo a forza dal proprio inconscio e portarlo fuori, renderlo manifesto, dargli forma. Iole era intenta a pensare a quale potesse essere il modo migliore per avvicinarsi nuovamente a lui, quando d’un tratto alle sue spalle sentii una voce rotta dal pianto: “ Signorina, signorina, la prego, si avvicini”. Iole non riusciva a credere alle sue orecchie. Le parole che tanto si sforzava di cercare non erano più necessarie, perché altre stavano occupando il vuoto che le si era creato intorno. “ Mi dica, ha bisogno di qualcosa?” “ Sì, si sieda per favore, qui, accanto a me. Sono settimane ormai che cerco con tutte le mie forze di mettere insieme i pezzi della mia vita, ma per quanto io mi sforzi, ci sono parti di essa che proprio non riesco a ricomporre. È come se il dolore mi impedisse di raccogliere quei frammenti che più hanno dilaniato la mia anima, ma io so che solo quando riuscirò a rimetterli insieme, essa potrà salvarsi ed essere libera di andare là dove il corpo non potrà accompagnarla. Ebbene, signorina, i suoi occhi mi appaiono così puri, così innocenti, che al solo guardarli la mia anima si solleva. E se le sue orecchie sono altrettanto pure, solo verso di esse il mio dolore potrà tendere senza che dalle labbra possano uscire giudizi che non farebbero altro che peggiorare la mia situazione.” “ Sono lusingata dalle sue parole, sig. G. La prego, mi racconti.” “Era una notte come le altre. Intorno a me il buio più profondo. Nel silenzio riuscivo perfino a sentire il battito del mio cuore, finché una lacrima iniziò a solcarmi il volto. Sentivo che era successo qualcosa e le mie sensazioni non tardarono a prender forma. Squillò il telefono. Alzai la cornetta. Poi il sangue mi si gelò nelle vene. Mio figlio era morto. Aveva avuto un incidente, non c’era stato modo di salvarlo. “ È morto sul colpo” mi dissero. Da quel giorno non riuscivo a darmi pace. I giorni trascorrevano inesorabili, persi qualsiasi cognizione dello spazio e del tempo, iniziai a perdere peso fino a che, un giorno, un’idea balenò nella mia mente. Anni di ricerca dovevano pur essere serviti a qualcosa. Forse un modo per colmare quell’ incomprensibile assenza esisteva ed era lì, a portata di mano, nel mio laboratorio. Decisi che a partire da quel giorno mi sarei dedicato alla creazione di un automa che avesse le sembianze di mio figlio e che in qualche modo potesse riempire quel vuoto che lui aveva lasciato dentro di me. Lavorai giorno e notte, per mesi, per anni, ma alla fine il risultato fu straordinario. Non solo ero riuscito a creare un essere che fosse identico a lui, ma ero anche riuscito a fare in modo che quello stesso essere avesse un’anima, un’anima grande, quale era quella di mio figlio. Non sempre però i grandi sentimenti rendono forte l’uomo, anzi, talvolta lo indeboliscono. Il mio amore verso la mia nuova creatura era immenso, indescrivibile, tuttavia non potevo esimermi dal fare paragoni tra lui e l’altro ogni qualvolta ne avessi l’occasione. La mia creatura soffriva: per quanto artificiale fosse il suo cuore, era pur sempre un cuore, e quando le ferite del cuore cominciano a sanguinare, non esiste modo di ricucirle. Una sera, come ero solito fare tutte le sere, entrai nella sua camera e lì vidi quello che nessun padre al mondo vorrebbe vedere: era disteso, con la testa reclinata. Il suo petto era aperto, nessun circuito era più collegato a quella scatola che avevo deciso dovesse pulsare. Aveva staccato la spina. Ancora una volta avevo fallito come padre, ma questa volta, avevo fallito anche come uomo. In qualità di uomo di scienza, non avrei mai dovuto lasciare che i sentimenti prevalessero sulle cose concrete. Attribuendo dei sentimenti alla mia creatura avevo difatti decretato la sua morte e ora mi ritrovo a dover piangere la perdita non più di un figlio, ma di due.” Iole rimase senza parole. Per quanto la sua mente si fosse più volte sforzata ad immaginare quello che poteva essere successo al sig. G., mai si era avvicinata a quella che era la realtà. Il suo silenzio però, non durò a lungo: “Carissimo sig. G., lei non li ha perduti. Il loro ricordo l’accompagnerà per sempre, fino agli ultimi giorni della sua vita. E sappi che i ricordi sono come le nevi che, sciolte dal sole, scorrono veloci per lunghi torrenti fino a giungere nelle sconfinate valli. È cosi che i ricordi si svegliano e attraversando quel cunicolo buio che è la nostra mente, giungono in un lungo e profondo inconscio. Per quanto tenebroso possa essere il suo di inconscio, fino a quando il ricordo dei suoi figli sarà in esso custodito, sappia che continueranno a vivere dentro di lei, e soprattutto, per lei.” Iole e il sig. G. si guardarono. Entrambi accennarono un sorriso. Quella fu l’ultima volta che i due si incontrarono. La sera stessa il sig. G., con l’animo più sereno, si addormentò per non svegliarsi mai più. Il suo cuore era senza più pesi., alla stessa altezza di quelli che aveva amato.