Immobilità del tempo
Strascichi di immagini, venute già andate via. Cose che si dilatano, si distendono, qui, davanti agli occhi di chi è seduto. Eppure è lì, dall’altro lato che si affollano. Distanti da me un passo, lontani il solco della mia immobilità.
Sono lí. Non io, loro. Le cose ormai senza forma, intendo. Io non so dove mi trovo: se nei canali intestinali della mia città e sto dunque per essere espulso in chissà quale fogna sopra-terra; se semplicemente in metro di ritorno a casa, se nel respiro distratto e pesante del signore seduto da qualche parte in questa giostra noiosa. Non so dove sono. In più mi muovo; involontariamente, però. E senza andare da nessuna parte, sia chiaro.
Queste rotaie che bestemmiano contro i defunti del fabbro che le ha battute, sono un’illusione, non un direzione: non si sapeva dove andare e ci si è lasciati trascinare, sperando. Niente di che, è chiaro, ma almeno, se non una meta, una strada. Giusto per convincersi almeno, soltanto, di non essersi persi.
Forse non mi trovo da qualche parte.
Piuttosto sono io stesso qualche parte. Un arto, un’asta ritta che tiene insieme il sotto e il sopra. Il sostegno di qualche vecchia cui un giovane screanzato, -mi sembra sia io- ha negato il posto.
Aspettate, fermi tutti -tranne il treno, logicamente-.
Quel finestrino. Quel vetro lì, si. Potrei essere lui. Intanto la galleria continua a vomitare se stessa sulle pareti. Ma dicevamo di quel vetro, di me… giusto.
Quel vetro.
Una membrana ingannevole tra dentro e fuori. Potrei essere lui. Pensandoci in fondo, potrei addirittura non esserci affatto; chissà.
Il procedere delle cose, melmoso e aderente allo sguardo di chi si è perso altrove, nel vuoto, segue. I binari, forse.
Lo fa, dietro quel vetro che soltanto, mi illude. Di essere me, o peggio, di essere all’interno. Dentro. Si, dentro qualsiasi cosa, non necessariamente il vagone; la vita ad esempio, il tempo, forse. Chi lo sa? Chi può dirlo?
Ancora residui di cose, che, scomposti,
mi si accalcano alla soglia degli occhi. Ostinati costellano questo scenario che non può esistere. Da nessuna parte, men che in un posto come questo, un posto che lascia il tempo che trova: pochi istanti di luce che si spengono nel buio, al passaggio di un treno.
A proposito di lui, comincia ad ansimare questo viscido animale, strisciante sul dorso, che mi porta nel ventre maleodorante per queste carcasse putride sedute accanto a me.
Si dice, le stia portando a casa. Ciascuno alla propria. Ognuno con la risposta pronta “Alla prossima!”.
Fermata, intendono. Ma quindi il treno si fermerà; da che ricordi dovrei scendere non appena lo farà. Scenderò.
A questo punto, mi pare di capire che non sono né fuori né dentro questo qualcosa che mi incede sotto le scarpe. Gli sono sopra.
Quindi scenderò.
Sono fermo, stavolta insieme alla bestia.
Le cose, ora, sono diverse da come le ho lasciate poco fa; sono arrivato alla stazione successiva, a quella precedente alla prossima; ma almeno qui le cose sono di nuovo, come ho detto, ferme. Il che, però, non so se mi rassicura o mi terrorizza.
Si sono di nuovo raccolte su se stesse, le cose. Ed io le osservo ricomporsi, come una donna che, pretenziosa, tenta di restituirsi la dignità aggiustandosi la gonna stropicciata.
Ora l’animale sospira e dilata le narici: le porte si sono aperte. Esco, scendo, quel che è, ma mi fermo. Gli sto dando le spalle mentre ispirando con violenza, la bestia dietro di me ottura le sue cavità. Una voce sorda di donna, monotona e neutrale, annuncia: “La porta si chiude”.
Di sobbalzo mi volto e vedo la bestia andare. La vedo per ciò che è, ora: un treno che se ci penso è in ritardo. Sta andando. Oltre. Non solo oltre la mia sagoma, ma oltre il tempo che qualcuno ha scaricato qui, dimenticato in quest’insolita stazione; un tempo esule degli istanti di luce buia della galleria in fondo al tunnel. Preoccupato, mi chiede di loro, degli istanti. Gli rispondo che non ho monete e non so che ora sia.
Se ci penso ho appena detto al tempo che non ho l’orologio.
Chissà come l’avrà presa.
Comunque sia, ora le cose che sfilano convulsamente davanti a me, sempre al di là di quella vitrea membrana, sono volti. Vite. Storie che ignoro e continuerò ad ignorare anche quando più tardi, ritornato dove devo, penserò solo che qualche idiota tra loro mi ha pestato il piede. Il destro per la precisione.
I loro sguardi incrociano i miei, ma come a tutti gli incroci ognuno va avanti, dritto. Per la strada delle sue rotaie.
Un momento. Lo scorrere sempre più veloce di quelle centinaia di facce riesce, nell’attimo prima di scomparire, ad assemblarmi negli occhi un solo volto dai contorni ombrati. Non è di uomo, né di donna; non ha nome.
È il volto di Nessuno, una di quelle cose sconvolgenti, che non si dimenticano nemmeno volendo. Lo vedrò d’ora in avanti ogni giorno nello specchio del mio bagno, quando l’alba ancora si strofina gli occhi dal sonno.
Quel volto sarà per sempre un riflesso familiare ed estraneo. Sarà il mio.
Della metro si ascoltano solo i vagiti e conati in lontananza.
Io, completo la piroetta e faccio per avviarmi quando un uomo, correndo, mi sfiora.
Con uno sbuffo, constata, prima ancora di averlo fatto del tutto, di aver perso la corsa, il treno, poi l’attimo, la vita. Di nuovo, il tempo.
Lo guardo e penso: “Bisogna sapersi fare i propri conti. Non mi dispiace, ora avrai tempo per pensarci”. Ancora lui, il tempo. In questa trincea dell’esistenza ce n’è davvero in abbondanza.
Saluto il tizio dandogli le spalle.
Ecco le scale e poi il mondo di fuori, di sopra, anzi visto che sono sceso “il mondo di giù”. Il che può avere una sua coerenza, una logica storpia, diciamo. In fondo, mi domando “non siamo tutti sotto il cielo»?
Gionathan Viapiana