14 Aprile
Non ne sono certo, credo di essere a Procida.Sento i colori muoversi sulla retina e scivolare lenta nel ricordo. I profumi si fiondano addosso e sfumano nel silenzio. Uno, due, tre passi. Nient’altro. Forse un bagliore lontano, un tuono accoccolatosi nell’alito di un lampo.
Sì, a guardare bene,se ci penso,quella laggiù è la Corricella, Dottore. Ed è notte.
Alle mie spalle, sul vecchio penitenziario abbandonato di Terra Murata, la pioggia è sbocciata con tutti i suoi meravigliosi petali trasparenti. Lentamente lenta, mi infradicia tutto.
Sì, sono solo.
A farmi compagnia, soltanto gli echi di qualche passo solitario che viene da giù, i due cannoni di Piazza d’Armi, un ombrello mezzo rotto e una sensazione che non so interpretare ma che sa di zucchero, Dottore.
Respiro l’odore bagnato del mare che s’infrange sulla pioggia e sugli scogli. Contemplo la violenza della natura: qualcuno lassù si sarà in cazzato per qualche motivo e vuole a tutti i costi darlo a vedere. Chissà com’è che una piccola barchetta riesce a superare la sua collera e attracca indenne al porticciolo.
Una donna getta le braccia intorno al collo del piccolo marinaio. Sono troppo lontano, ma potrei giurare che il suo fosse un sorriso di sollievo, più che di felicità. Maleripeto: non sono così vicino.
Ad un tratto la tempesta s’arena e il mare lancia in cielo le stelle.
Piano, mi avvicino al penitenziario. La piazzola davanti è deserta.
L’edificio, i caratteri consumati della scritta “Penitenziario”, le finestre agonizzanti nella polvere sembrano essersi perse in un tempo di cui ci resta tramandato solo tutto il suo peso. Lo sento sullo stomaco, si stringe con una morsa attorno alla gola, mi fa tremare nell’anima. Ha capito, Dottore? Ho paura.
Un richiamo, un fruscio, di nuovo un bagliore, alzo la testa: la finestra centrale, quella sopra il portone, è lì che la vedo. Un’ombra più scura delle altre, ferma, appoggiata sull’uscio, mi osserva. È un attimo e pare eterno. Lo tengo sospeso, lo trattengo a me, alla mia vista, anche se vorrei distoglierlo, lo sguardo. È quel suo volto straziato, Dottore, quegli occhi, a tagliarmi dentro. È tutto avvinghiato al mio respiro: diviene terra e frutto di ogni mia angoscia.
Lo sa, Dottore? Ha qualcosa di familiare, ma ancora non ho capito cosa, ancora non ho capito cos’è. Nel buio, si risvegliano le celle, ravvivate dalla prigionia, come alcol sulla brace, scosse dal fardello che le anime dei morti sono costretti a subire per mezzo della condanna divina, incatenante più di quella terrena. Altre anime, gridando, cercano conforto e pretendono, straziati, di essere purgati. Il silenzio si è riempito, a poco a poco, di una folla di parole incomprensibili ai miei ricordi. Sembrano trasportare il peso della sofferenza di chi le pronuncia.
Rèquiem aetèrnam dona eis, Domine, et lux perpètua lùceat eis. Requiéscant in pace. Amen.
La prigione è tutto un groviglio di mille lamenti, Dottore. È una preghiera biascicata fuori dalle gengive, con rabbia ma senza convinzione, come un desiderio ancora pagano e inappagabile, dissanguato ma che non darà fine alle sofferenze. Come un loop senza tagli, senza dissolvenze, senza climax, senza the end. Un tatuaggio inciso sotto pelle, nella colpa, Dottore.
Davanti a tutti, sempre lì, al di sopra di questi fremiti ottemperanti al volere sacro, per una qualche colpa da espiare, fermo, ancora e ancora sofferente, resta lui con il suo sguardo.
Ánima Christi, sanctífica me. Corpus Christi, salva me. Sanguis Christi, inébria me, Aqua láteris Christi, lava me.
La pupilla scura si mescola all’iride che trema di rancore,le orbite si svuotano in un sorriso che è ancella del buio, del penitenziario, del suo. Lo so bene io com’è, Dottore: il buio, creda a me, se lo porta dietro, con sé, da un’eternità. Di nuovo vorrei metter via lo sguardo, ma questa volta è lui che mi trattiene. L’ho riconosciuto. Ci siamo riconosciuti. Ho avvertito il solito e sconfinato desiderio di scappare, come la preda che di fronte al suo aguzzino sente accelerarsi il cuore e rabbrividisce all’idea di morire.
Ab hoste malígno defénde me. In hora mortis meævoca me. Et iube me veníre ad te, ut cum Sanctis tuis laudem te in sǽcula sæculórum. Amen.
È certamente lui, Dottore, con i suoi lineamenti indefinibili, che per quanto mutevoli e sfigurabili, come incubi che passano di sonno in sonno, tra le lenzuola, di letto in letto, si riconoscono dall’odore, dal trarattattà dei denti, dal sudore, dalla paura. È lui, tutto coperto, nascosto dietro un ghigno largo, unto, diafano, irrispettoso. Prende in giro la luna, lui, se ne fotte delle stelle, della pioggia, del mare in tempesta, della mia tachicardia che è tutt’uno col reflusso che mi porto a spasso da quando ancora, inconsapevole, difendevo, con le fiabe, gli istinti d’amore di mia madre. È lui, Dottore, resuscitato tra le pieghe di una fotografia che credevo persa, ritrovata invece come segnalibro in un racconto di Poe. Piano piano, si nasconde al di là delle finestre, tra uno, due, tre pilastri del carcere. È lui, ancora lui, con la solita sfida di sguardi che ormai mi propone da anni, ma che da sempre non colgo.
Piuttosto che accettare il duello, fuggo, Dottore. Lo faccio da sempre e lui mi fa da monito, come un post-it attaccato al frigo, semmai provassi a dimenticarlo.
“Sapevo che saresti ricomparso, ma non immaginavo così presto”, sospiro.
Resta ancora sulla pelle, Dottore, come quell’incubo che, al mattino, nonostante la luce e i suoi fotoni razionalizzanti–perché so bene, Dottore, che è così, è solo colpa del buio! -ti lascia il cattivo umore, e te lo porti in giro per la città, nei su e giù della giornata, come un lutto all’angolo del cuore. Non va via, né col caffè, né col sorriso di chi ami, e rischi di portartelo, di nuovo, di notte, fin dentro alletto con te.Ho paura, mi infilo nella notte, a capo chino, di fretta. Già, Dottore. Scappo ancora. Non so fare altro e lei lo sa, anche se non ha la cura. Non abbassi il capo, non finga, non si preoccupi, non c’è dispiacere nelle mie parole. Ormai, lo so da tempo.
C’è una lunga salita da percorrere, prima di arrivare al portale di Mezz’Omo. È sempre la stessa, Dottore. Solo che, questa volta, la pioggia, rimasta fantasma nel cigolare sui lastroni del pavimento,sulle grondaie, nel profumo dell’aria, per paura di scivolare,mi rallenta il passo.
Mi cedo alla notte che diviene riparo e rivelazione per le mie paure; vorrei nascondermi, ma quello sguardo,che conosce tutto di me, come un’antica maledizione che devo scontare -lo so,l’ho capito -, mi insegue.
Passo nuovamente di fianco ai due cannoni di Piazza D’Armi e, superandoli, mi tuffo in un tunnel di pietre e oscurità che mi pare impercorribile e impermeabile alla vista, alla memoria. Tant’è che qui, i ricordi si affievoliscono a tal punto che non riesco più a consegnare alla scrittura, a lei, mio Dottore,dettagli azzurri e precisi. Tutto avviene di corsa: alla mia destra, immersa nelle mura, c’è una piccola, silenziosa e lugubre cappella; più in là, inchiodate, incise o dipinte –non ricordo bene –alle pareti del tunnel, ci sono cinque (forse sei?) croci.
Mi pare di averne viste altre due ai lati dell’entrata del traforo, ma potrei sbagliare.
I pensieri ululano un latrato che mi fa solo. Terra Murata, silenziosa,forse con diffidenza, mi accompagna con lo sguardo mentre afferro la breve salita che penetra il cunicolo di Porta Olmo, lì, dove, qualche anno fa, mi intrattenni con la figlia del panettiere per insegnarci l’amore.
Il prete, prima era rimasto a curiosare mentre le spingevo la mano sul pene, poi, accortosi che lo avevo beccato intento a guardarci, ci cacciò via facendo un sacco di moine. Della figlia del panettiere ho forse una polaroid dimenticata a casa dei miei genitori. Se vuole, potrei portargliela la prossima volta, Dottore. Nel mio innocente museo, è tra i primissimi ricordi. Era bella, bellissima, e ne ero innamorato. Provavo un amore ingenuo, immaturo, certo, che sa di pubertà, non lo metto indubbio, ma, me lo lasci dire, comunque puro. O almeno, a dirgliela tutta, è questo che ci ho sempre visto in quella foto, fino a quando l’ho avuta sotto al naso: purezza.Ora non saprei.
Continuo.
Ho i polpacci induriti e stanchi. Ogni volta che sollevo le punte dei piedi, in ossequio alla mia fuga, sento male, come se una qualsiasi crudele bestia mi avesse morso stracciandomi via la carne.Vorrei fermarmi, ma ho paura di trovarmi costretto a guardarmi alle spalle, di trovarmi faccia a faccia con la bestia crudele e coi polpacci sanguinanti.
Resisto al dolore, stringo i denti e, a testa bassa, ad occhi chiusi, continuo a correre.
Sarà perché penso alla figlia del panettiere, alla polaroid, a mia madre, al prete, a mio padre -che Dio lo abbia in gloria per la pazienza, i sacrifici e la bontà–ma supero veloce Porta Olmo,oltre il quale il Conservatorio delle Orfane mi accoglie sobrio e borioso, come un austero usciere di una famiglia aristocratica.Lo so cosa sta pensando, Dottore: tra piazza delle Armi e il Conservatorio non ci vuole tutto questo tempo, ha ragione, ma cosa vuole che le dica? Vuole mettersi a discutere con i miei ricordi, le mie emozioni?
Insomma, dicevo.
Faccio finalmente per girarmi, apro gli occhi, tenuti saldamente stretti alla polaroid e, oltre al buio bulimico, distinguo il nulla.
L’ho seminato. Respiro.
Adesso, finalmente, l’aria mi sembra più leggera. Ancora odora di pioggia,ancora è affannata dalla corsa ma,al posto di quei canti in pena, ora, l’aria trasportale note di un pianoforte. Mi piace, anche se ha il Do centrale leggermente calante.
Accompagnato da quel motivo, mi avvicino sereno al punto panoramico, quello di Via Borgo, alla sinistra del conservatorio. Di fronte a me Capri, certamente lì.
Il buio, una leggera foschia e la distanza me la nascondono, ma la cerco comunque lì,a memoria, distesa sul suo fascino secolare.
Respiro e sorridere acquista un valore tutto nuovo, Dottore. Come? Non saprei, Dottore, è lei che deve capire e spiegarmi i lperché.
Procida è teatro e artefice di questa tavolozza. S’immerge nel retrobottega della mia mente, lascia un calco, un’impronta chiara, forse non del tutto inequivocabile, dentro il mio museo. È un quadro sfilacciato da una coppia di gabbiani, il cui volo taglia il cielo come un altro Fontana che, insoddisfatto della propria opera, riversa tutta la sua rabbia sul feto di tela, donandole, involontariamente, un fascino tutto nuovo.
Chiudo gli occhi e mi abbandono ancora al suono bianco di quel pianoforte. Le note fuggono,si nascondono, si raggiungono,si rivelano come quando, da bambini, di notte, giocavamo a nascondino, e speravamo di uscire fuori solo per correre e fare salvi tutti. La melodia si corica sulle mie labbra, ora raggrinzite in un motivetto fischiato familiare. Pe’me tu si’catena, pe’ll’ate si’Maria.
È in questi momenti che sono felice, Dottore, assolutamente felice. Lontano dagli incubi, a pochi passi da un sogno, sul bordo di un precipizio. Ma è un attimo. Non mi illudo. È sempre andata così.
Soltanto un piccolissimo attimo di gioia. Me ne accorgo subito, sa. Lo sento, non puoi non sentirlo.
Il pianoforte si è già fermato, il pittore ha tagliato un’altra tela, la polaroid l’ho persa in qualche taschino di una giacca che ho buttato via,mio padre ha perso la pazienza. Un respiro si poggia sulla mia nuca. Ne sento il fetore, pestifero, atroce, crudele. Non faccio in tempo agirarmi che le palpebre, come impaurite, subito fuggono nelle orbite, lasciando scoperti gli occhi. Mi spinge dal bordo del precipizio.
Ánima Christi, sanctífica illum. Corpus Christi, salva illum. …
Mi ha trovato.
15 Aprile.
È l’alba, anzi no. Fa troppo caldo perché il sole sia scappato da poco dalle tenebre.
In cielo, una buccia di luna si nasconde lentamente, un po’ alla volta; sembra un soffio bianco lasciato lì da un paio di labbra silenziose.
Sposto lo sguardo dalla luna. Difronte al mare e arroccato tra i grovigli della vegetazione di Punta Serra, un cimitero sporge le sue croci sulla spiaggia del Pozzo Vecchio, lì dove un postino ( o un poeta? forse entrambi, non lo so) espanse il suo cuore fino a librarsi come una farfalla, lì dove un gabbiano sembra pronto a morire.Ha le piume intirizzite e grigie, le ali deboli ( troppo per osare il volo), il passo sfibrato e stanco, lo sguardo perso, svuotato e implorante ma il becco già si schiude con affanno per ruminare e gettare un ultimo respiro. Da lontano arrivano il volo e il richiamo malinconico dei suoi vecchi compagni. Alcuni sembrano ridere, ma è soltanto l’ironica natura del loro verso. È un pianto, forse una preghiera, di certo non c’è derisione.
Tutt’intorno è opaco, sottilissimo e gelatinoso ed ogni sensazione -che sia tattile, visiva, gustativa, olfattiva o auditiva -somiglia più a uno scrigno di ricordi, ad una diapositiva che proietta su di un muro lontano la sua pellicola sfocata, che a una realtà effettivamente vissuta. Poso le riflessioni in un angolo di sabbia, il caldo è reale e su questo –forse –non ho alcun dubbio; mi tolgo la maglia, i bracciali e gli anelli. Mi assicuro che le tasche del costume siano vuote e mi avvicino alla riva. Bagno i piedi e senza fretta, lentamente, entro nell’acqua.
Passano dei secondi, sono rilassato e,ora che vi sono immerso fino al collo, una medusa dai riflessi violacei viene a galla. Provo a spostarmi ma, prima che possa accorgermene, sono circondato da altre più grosse e minacciose; resto fermo, sospeso, immerso in un banco di morsi da cui non posso uscire illeso. Mi rassegno, evito la fuga e, chiudendo gli occhi, mi getto nel loro abbraccio.
16 Aprile
Lo sa? La luce rende tutto così facile.
Come il vento, porta con sé l’incerto e dissipa le maschere, ma il problema è che parlo, respiro eppure non intravedo la realtà, dottore.Come se questa potesse nascondersi agli occhi di chi la contempla, proprio quando la natura si fa chiara. Ma le mani, dottore, possono ingannarci?
È la narrazione che si fa onesta. Forse farei meglio a dire giusta, nei limiti degli eccessi e oltre la stesse a inibizione all’eccesso.
Tra le mie, tra le mie mani, ho dei Tex e non so perché. Forse fanno parte di un altro museo, di un’altra bottega. Non è mia questa tavolozza, dottore.
Li poggio su di un comodino e mi distendo sul letto, sotto le coperte. Me le tiro fin sotto al mento. La stanza, i mobili, le lenzuola e perfino la cornice di un quadro appeso alla parete, il cui ritratto emette margini e colori scuri, indefiniti e indefinibili, sono interamente bianche. Di fronte a me, uno specchio. Per un istante mi è parso di scorgervi un’altra persona qui al mio fianco, ma sarà stato il sonno; a volte gioca brutti scherzi.
La camera è fresca e sparge gemiti di aria pulita, come di detersivo di Marsiglia.
Con la schiena dritta, mi metto seduto con le gambe incrociate e viviseziono il quadro. Sembra che le immagini cambino di significato, forma e colore in base al punto di vista. Ora è leggermente alla mia sinistra e mi propone un bosco e una chiesa; guardandolo meglio, oltre il giardino dei miei sospetti, si scorge anche la presenza di un campanile, invaso di verde ingiallito. Mi sposto disegnando con le natiche una linea immaginaria sul letto, fermandomi in un punto diametralmente opposto ma simmetrico a quello di partenza. Ora vedo una campagna, una donna e un uomo.Vedo un fallo eretto, come un campanile. Sento caldo, mi scopro, chiudo gli occhi, poi li riapro e vedo un mare, due gabbiani, un paesino arroccato e… uno sguardo torvo, inquietante e a tratti indescrivibili. Sono costretto a distogliere il mio sguardo da quella visione fastidiosa, dottore, e mi concentro un po’ a fissarmi i piedi. Quasi mi ipnotizzo a guardarli mentre si muovono. Beh, sarebbe meglio dire “mentre li muovo”; sarei pur sempre io a dire e a fare, non trova? Anche se, a dirgliela tutta,a volte mi pare che ogni cosa capiti per caso, senza il mio comando, come in un accatastarsi continuo di azioni indistinte, diverse, tese oltremisura tra loro e che si intersecano in un labirinto. Lei che ne pensa, dottore?
Riprendo i Tex. Certo, non sono miei,ma perché non iniziare a leggerli? In sottofondo, come provenissero da un’altra stanza, delle preghiere. Non me ne curo, non ascolto, sono concentrato sui Tex. Giro la prima pagina, seguo col dito la prima, la seconda, la terza vignetta ma mi addormento dopo poco.
Un’altra volta.
Ánima Christi, sanctífica illum. Corpus Christi, salva illum. …