Salva Illum di Francesco Amoruso

14 Aprile

Non ne sono certo, credo di essere a Procida.Sento i colori muoversi sulla  retina e  scivolare lenta  nel ricordo. I profumi si fiondano  addosso  e sfumano nel silenzio.  Uno,  due,  tre  passi.  Nient’altro.  Forse  un  bagliore  lontano,  un  tuono  accoccolatosi  nell’alito  di  un lampo. 

Sì, a guardare bene,se ci penso,quella laggiù è la Corricella, Dottore. Ed è notte.

Alle  mie  spalle,  sul vecchio  penitenziario abbandonato  di Terra  Murata, la  pioggia è sbocciata  con  tutti i suoi meravigliosi petali trasparenti. Lentamente lenta, mi infradicia tutto. 

Sì, sono solo. 

A farmi compagnia, soltanto gli echi di qualche passo solitario che viene da giù, i due cannoni di Piazza d’Armi, un ombrello mezzo rotto e una sensazione che non so interpretare ma che sa di zucchero, Dottore.

Respiro l’odore bagnato del mare che s’infrange sulla pioggia e sugli scogli. Contemplo la violenza della natura: qualcuno lassù si sarà in cazzato per qualche motivo e vuole a tutti i costi darlo a vedere. Chissà com’è che una piccola barchetta riesce a superare la sua collera e attracca indenne al porticciolo.

Una donna getta le braccia intorno al collo del piccolo marinaio. Sono troppo lontano, ma potrei giurare che il suo fosse un sorriso di sollievo, più che di felicità. Maleripeto: non sono così vicino.

Ad un tratto la tempesta s’arena e il mare lancia in cielo le stelle. 

Piano, mi avvicino al penitenziario. La piazzola davanti è deserta. 

L’edificio,  i  caratteri  consumati  della  scritta “Penitenziario”,  le  finestre agonizzanti  nella  polvere  sembrano essersi perse in un tempo di cui ci resta tramandato solo tutto il suo peso. Lo sento sullo stomaco, si stringe con una morsa attorno alla gola, mi fa tremare nell’anima. Ha capito, Dottore? Ho paura.

Un richiamo, un fruscio, di nuovo un bagliore, alzo la testa: la finestra centrale, quella sopra il portone, è lì che la vedo. Un’ombra più scura delle altre, ferma, appoggiata sull’uscio, mi osserva. È un attimo e pare eterno. Lo tengo sospeso, lo  trattengo  a  me, alla  mia  vista, anche  se  vorrei distoglierlo, lo sguardo. È quel  suo volto straziato, Dottore, quegli  occhi, a  tagliarmi  dentro. È tutto avvinghiato al  mio respiro:  diviene terra  e  frutto  di ogni mia angoscia. 

Lo sa, Dottore? Ha qualcosa di familiare, ma ancora non ho capito cosa, ancora non ho capito cos’è. Nel  buio, si risvegliano le celle, ravvivate dalla  prigionia, come  alcol sulla  brace,  scosse dal  fardello  che  le anime dei morti sono costretti a subire per mezzo della condanna divina, incatenante più di quella terrena. Altre anime, gridando, cercano conforto e pretendono, straziati, di essere purgati. Il silenzio si è riempito, a  poco a poco, di una folla di parole incomprensibili ai miei ricordi. Sembrano trasportare il peso della sofferenza di chi le pronuncia.

Rèquiem aetèrnam dona eis, Domine, et lux perpètua lùceat eis. Requiéscant in pace. Amen.

La  prigione è tutto  un  groviglio  di mille lamenti, Dottore. È una  preghiera biascicata fuori dalle  gengive, con rabbia  ma  senza  convinzione,  come  un desiderio  ancora  pagano  e  inappagabile,  dissanguato  ma  che  non  darà fine  alle  sofferenze. Come un loop  senza  tagli,  senza  dissolvenze, senza climax, senza  the  end. Un  tatuaggio inciso sotto pelle, nella colpa, Dottore.

Davanti  a  tutti,  sempre  lì,  al  di  sopra  di  questi  fremiti ottemperanti al  volere  sacro, per  una  qualche  colpa  da espiare, fermo, ancora e ancora sofferente, resta lui con il suo sguardo.

Ánima Christi, sanctífica me. Corpus Christi, salva me. Sanguis Christi, inébria me, Aqua láteris Christi, lava me.

La  pupilla  scura si  mescola  all’iride  che  trema  di  rancore,le  orbite si svuotano in  un  sorriso  che è ancella  del buio, del penitenziario, del suo. Lo so bene io com’è, Dottore: il buio, creda a me, se lo porta dietro, con sé, da un’eternità. Di nuovo vorrei metter via lo sguardo, ma questa volta è lui che mi trattiene. L’ho riconosciuto. Ci siamo riconosciuti. Ho avvertito il solito e sconfinato desiderio di scappare, come la preda che di fronte al suo aguzzino sente accelerarsi il cuore e rabbrividisce all’idea di morire. 

Ab  hoste  malígno  defénde  me.  In  hora  mortis  meævoca  me.  Et  iube  me  veníre  ad  te,  ut  cum  Sanctis  tuis laudem te in sǽcula sæculórum. Amen.

È certamente lui, Dottore, con i suoi lineamenti indefinibili, che per quanto mutevoli e sfigurabili, come incubi che  passano  di  sonno  in  sonno,  tra  le  lenzuola,  di  letto  in  letto,  si  riconoscono  dall’odore,  dal  trarattattà dei denti, dal  sudore, dalla  paura. È lui, tutto  coperto,  nascosto dietro un ghigno largo,  unto, diafano,  irrispettoso. Prende in giro la luna, lui, se ne fotte delle stelle, della pioggia, del mare in tempesta, della mia tachicardia che è tutt’uno col reflusso che mi porto a spasso da quando ancora, inconsapevole, difendevo, con le fiabe, gli istinti d’amore  di  mia  madre. È  lui, Dottore, resuscitato tra  le  pieghe  di  una  fotografia  che  credevo  persa,  ritrovata invece come segnalibro in un racconto di Poe. Piano piano, si nasconde al di là delle finestre, tra uno, due, tre pilastri  del carcere. È lui, ancora  lui,  con  la  solita  sfida  di  sguardi  che  ormai  mi  propone  da  anni,  ma  che  da sempre non colgo. 

Piuttosto  che  accettare  il  duello,  fuggo, Dottore.  Lo  faccio da  sempre  e  lui  mi  fa  da  monito,  come  un  post-it attaccato al frigo, semmai provassi a dimenticarlo.

“Sapevo che saresti ricomparso, ma non immaginavo così presto”, sospiro.

Resta  ancora  sulla  pelle, Dottore, come  quell’incubo  che, al  mattino,  nonostante  la  luce  e  i  suoi  fotoni razionalizzanti–perché so bene, Dottore, che è così, è solo colpa  del buio! -ti lascia  il cattivo umore,  e  te lo porti in giro per la città, nei su e giù della giornata, come un lutto all’angolo del cuore. Non va via, né col caffè, né col sorriso di chi ami, e rischi di portartelo, di nuovo, di notte, fin dentro alletto con te.Ho paura, mi infilo nella notte, a capo chino, di fretta. Già, Dottore. Scappo ancora. Non so fare altro e lei lo sa, anche se non ha la cura. Non abbassi il capo, non finga, non si preoccupi, non c’è dispiacere nelle mie parole. Ormai, lo so da tempo. 

C’è una lunga salita da percorrere, prima di arrivare al portale di Mezz’Omo. È sempre la stessa, Dottore. Solo che,  questa  volta, la  pioggia,  rimasta fantasma  nel cigolare  sui  lastroni del  pavimento,sulle  grondaie,  nel profumo dell’aria, per paura di scivolare,mi rallenta il passo. 

Mi cedo alla notte che diviene riparo e rivelazione per le mie paure; vorrei nascondermi, ma quello sguardo,che conosce tutto di me, come un’antica maledizione che devo scontare -lo so,l’ho capito -, mi insegue. 

Passo  nuovamente  di fianco  ai  due  cannoni  di  Piazza  D’Armi  e,  superandoli,  mi  tuffo in  un tunnel di  pietre  e oscurità che  mi  pare  impercorribile  e  impermeabile  alla  vista,  alla  memoria. Tant’è che  qui, i ricordi  si affievoliscono  a  tal  punto  che  non  riesco  più a  consegnare  alla  scrittura,  a  lei,  mio Dottore,dettagli  azzurri  e precisi. Tutto  avviene  di  corsa:  alla  mia  destra,  immersa  nelle  mura,  c’è una  piccola,  silenziosa  e  lugubre cappella; più in là, inchiodate, incise o dipinte –non ricordo bene –alle pareti del tunnel, ci sono cinque (forse sei?) croci. 

Mi pare di averne viste altre due ai lati dell’entrata del traforo, ma potrei sbagliare. 

I pensieri ululano un latrato che mi fa solo. Terra Murata, silenziosa,forse con diffidenza, mi accompagna con lo  sguardo  mentre  afferro  la  breve  salita  che  penetra  il  cunicolo di  Porta  Olmo, lì,  dove,  qualche  anno  fa,  mi   intrattenni con la figlia del panettiere per insegnarci l’amore. 

Il prete, prima era rimasto a curiosare mentre le spingevo la mano sul pene, poi, accortosi che lo avevo beccato intento a  guardarci,  ci  cacciò via  facendo  un  sacco  di  moine.  Della  figlia  del  panettiere ho  forse  una  polaroid dimenticata a casa dei miei genitori. Se vuole, potrei portargliela la prossima volta, Dottore. Nel mio innocente museo, è tra  i  primissimi  ricordi. Era  bella,  bellissima,  e  ne  ero  innamorato.  Provavo  un  amore  ingenuo, immaturo,  certo,  che  sa  di pubertà, non lo  metto indubbio,  ma,  me  lo  lasci  dire, comunque  puro.  O  almeno,  a dirgliela tutta, è questo che ci ho sempre visto in quella foto, fino a quando l’ho avuta sotto al naso: purezza.Ora non saprei.

Continuo. 

Ho i polpacci induriti e stanchi. Ogni volta che sollevo le punte dei piedi, in ossequio alla mia fuga, sento male, come se una qualsiasi crudele bestia mi avesse morso stracciandomi via la carne.Vorrei fermarmi, ma ho paura di  trovarmi  costretto a  guardarmi  alle  spalle,  di  trovarmi  faccia  a  faccia  con  la  bestia  crudele  e coi  polpacci sanguinanti. 

Resisto al dolore, stringo i denti e, a testa bassa, ad occhi chiusi, continuo a correre. 

Sarà perché penso alla figlia del panettiere, alla polaroid, a mia madre, al prete, a mio padre -che Dio lo abbia in gloria per la pazienza, i sacrifici e la bontà–ma supero veloce Porta Olmo,oltre il quale il Conservatorio delle Orfane  mi  accoglie  sobrio  e  borioso,  come  un  austero  usciere  di  una  famiglia  aristocratica.Lo so  cosa  sta pensando, Dottore: tra piazza delle Armi e il Conservatorio non ci vuole tutto questo tempo, ha ragione, ma cosa vuole che le dica? Vuole mettersi a discutere con i miei ricordi, le mie emozioni?

 Insomma, dicevo.

Faccio  finalmente  per  girarmi, apro  gli  occhi,  tenuti  saldamente  stretti  alla  polaroid e, oltre  al  buio bulimico, distinguo il nulla. 

L’ho seminato. Respiro. 

Adesso, finalmente, l’aria mi sembra più leggera. Ancora odora di pioggia,ancora è affannata dalla corsa ma,al posto  di quei  canti  in  pena, ora,  l’aria trasportale  note  di  un  pianoforte. Mi  piace,  anche  se  ha  il  Do  centrale leggermente calante. 

Accompagnato da  quel motivo, mi avvicino sereno  al punto panoramico, quello di Via Borgo, alla  sinistra  del conservatorio. Di fronte a me Capri, certamente lì. 

Il buio, una leggera foschia e la distanza me la nascondono, ma la cerco comunque lì,a memoria, distesa sul suo fascino secolare.

Respiro e sorridere acquista un valore tutto nuovo, Dottore. Come? Non saprei, Dottore, è lei che deve capire e spiegarmi i lperché. 

Procida è teatro  e  artefice  di  questa  tavolozza.  S’immerge  nel  retrobottega  della  mia  mente,  lascia  un  calco, un’impronta  chiara,  forse  non  del  tutto  inequivocabile,  dentro  il  mio  museo. È un  quadro  sfilacciato  da  una coppia di gabbiani, il cui volo taglia il cielo come un altro Fontana che, insoddisfatto della propria opera, riversa tutta la sua rabbia sul feto di tela, donandole, involontariamente, un fascino tutto nuovo.

Chiudo gli occhi e mi abbandono ancora al suono bianco di quel pianoforte. Le note fuggono,si nascondono, si raggiungono,si  rivelano  come quando,  da  bambini,  di  notte, giocavamo a  nascondino, e  speravamo  di  uscire fuori  solo  per  correre  e  fare salvi  tutti. La  melodia si  corica sulle  mie  labbra,  ora  raggrinzite  in  un  motivetto fischiato familiare. Pe’me tu si’catena, pe’ll’ate si’Maria

È in  questi  momenti  che sono  felice, Dottore,  assolutamente  felice.  Lontano dagli  incubi,  a  pochi  passi  da  un sogno, sul bordo di un precipizio. Ma è un attimo. Non mi illudo. È sempre andata così. 

Soltanto un piccolissimo attimo di gioia. Me ne accorgo subito, sa. Lo sento, non puoi non sentirlo. 

Il pianoforte si è già fermato, il pittore ha tagliato un’altra tela, la polaroid l’ho persa in qualche taschino di una giacca  che  ho  buttato  via,mio  padre  ha  perso  la  pazienza.  Un respiro  si  poggia  sulla  mia  nuca. Ne  sento  il fetore, pestifero, atroce, crudele. Non faccio in tempo agirarmi che le palpebre, come impaurite, subito fuggono nelle orbite, lasciando scoperti gli occhi. Mi spinge dal bordo del precipizio.

Ánima Christi, sanctífica illum. Corpus Christi, salva illum. …

Mi ha trovato. 

15 Aprile.

È l’alba, anzi no. Fa troppo caldo perché il sole sia scappato da poco dalle tenebre. 

In cielo, una buccia di luna si nasconde lentamente, un po’ alla volta; sembra un soffio bianco lasciato lì da un paio di labbra silenziose.

Sposto lo sguardo dalla luna. Difronte al mare e arroccato tra i grovigli della vegetazione di Punta Serra, un cimitero sporge le sue croci sulla spiaggia del Pozzo Vecchio, lì dove un postino ( o un poeta? forse entrambi, non lo so) espanse il suo cuore fino a librarsi come una farfalla, lì dove un gabbiano sembra pronto a morire.Ha le piume intirizzite e grigie, le ali deboli ( troppo per osare il volo), il passo sfibrato e stanco, lo sguardo perso, svuotato e implorante ma il becco già si schiude con affanno per ruminare e gettare un ultimo respiro. Da lontano arrivano il volo e il richiamo malinconico dei suoi vecchi compagni. Alcuni sembrano ridere, ma è soltanto l’ironica natura del loro verso. È un pianto, forse una preghiera, di certo non c’è derisione. 

Tutt’intorno è opaco, sottilissimo e gelatinoso ed ogni sensazione -che sia tattile, visiva, gustativa, olfattiva o auditiva -somiglia più a uno scrigno di ricordi, ad una diapositiva che proietta su di un muro lontano la sua pellicola sfocata, che a una realtà effettivamente vissuta. Poso le riflessioni in un angolo di sabbia, il caldo è reale e su questo –forse –non ho alcun dubbio; mi tolgo la maglia, i bracciali e gli anelli. Mi assicuro che le tasche  del  costume  siano  vuote  e  mi  avvicino  alla  riva. Bagno  i  piedi  e  senza  fretta,  lentamente,  entro nell’acqua. 

Passano dei secondi, sono rilassato e,ora che vi sono immerso fino al collo, una medusa dai riflessi violacei viene  a  galla.  Provo  a  spostarmi  ma,  prima  che  possa  accorgermene, sono circondato  da  altre più  grosse  e minacciose; resto fermo, sospeso, immerso in un banco di morsi da cui non posso uscire illeso. Mi rassegno, evito la fuga e, chiudendo gli occhi, mi getto nel loro abbraccio.

16 Aprile

Lo sa? La luce rende tutto così facile.

Come il vento, porta con sé l’incerto e dissipa le maschere, ma il problema è che parlo, respiro eppure non intravedo  la  realtà, dottore.Come  se  questa  potesse  nascondersi  agli  occhi  di  chi  la  contempla, proprio quando la natura si fa chiara. Ma le mani, dottore, possono ingannarci? 

È la  narrazione  che  si  fa  onesta.  Forse  farei  meglio  a  dire giusta,  nei  limiti degli  eccessi  e  oltre  la  stesse a inibizione all’eccesso.

Tra  le  mie, tra  le  mie  mani, ho dei  Tex  e  non  so  perché. Forse  fanno  parte  di  un  altro  museo,  di  un’altra bottega. Non è mia questa tavolozza, dottore. 

Li poggio su di un comodino e mi distendo sul letto, sotto le coperte. Me le tiro fin sotto al mento. La stanza, i mobili, le lenzuola e perfino la cornice di un quadro appeso alla parete, il cui ritratto emette margini e colori scuri,  indefiniti  e  indefinibili,  sono  interamente  bianche.  Di  fronte  a  me,  uno  specchio.  Per  un  istante  mi  è parso di scorgervi un’altra persona qui al mio fianco, ma sarà stato il sonno; a volte gioca brutti scherzi.

La camera è fresca e sparge gemiti di aria pulita, come di detersivo di Marsiglia.

Con  la  schiena  dritta,  mi metto  seduto con  le  gambe  incrociate  e viviseziono  il  quadro. Sembra  che  le immagini cambino di significato, forma e colore in base al punto di vista. Ora è leggermente alla mia sinistra e mi propone un bosco e una chiesa; guardandolo meglio, oltre il giardino dei miei sospetti, si scorge anche la  presenza  di  un  campanile,  invaso  di  verde  ingiallito.  Mi  sposto  disegnando  con  le  natiche  una  linea immaginaria sul letto, fermandomi in un punto diametralmente opposto ma simmetrico a quello di partenza. Ora  vedo una  campagna,  una  donna  e  un uomo.Vedo  un  fallo  eretto, come  un  campanile. Sento caldo,  mi scopro, chiudo gli occhi, poi li riapro e vedo  un mare, due  gabbiani, un paesino arroccato e… uno sguardo torvo,  inquietante  e  a  tratti  indescrivibili.  Sono  costretto  a  distogliere  il  mio  sguardo  da  quella  visione fastidiosa, dottore, e  mi  concentro un  po’ a  fissarmi  i  piedi. Quasi  mi  ipnotizzo  a  guardarli  mentre  si muovono. Beh, sarebbe meglio dire “mentre li muovo”; sarei pur sempre io a dire e a fare, non trova? Anche se,  a  dirgliela  tutta,a  volte  mi  pare  che ogni  cosa capiti  per  caso,  senza  il  mio  comando,  come  in un accatastarsi continuo di azioni indistinte, diverse, tese oltremisura tra loro e che si intersecano in un labirinto. Lei che ne pensa, dottore?

Riprendo i Tex. Certo, non sono miei,ma perché non iniziare a leggerli? In sottofondo, come provenissero da un’altra stanza, delle preghiere. Non me ne curo, non ascolto, sono concentrato sui Tex. Giro la prima pagina, seguo col dito la prima, la seconda, la terza vignetta ma mi addormento dopo poco.

Un’altra volta.

Ánima Christi, sanctífica illum. Corpus Christi, salva illum. …

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