
di Martina Salvai
Provai ad alzarmi ancora, ma non facevo che sprofondare in quella poltrona di pelle nuova. E ad ogni movimento gran baccano, sbuffi, cigolii, mi investiva un olezzo di macero e cuoio. Rinunciai. Potevo sporgermi appena e afferrare una qualsiasi rivista. Anche quelle erano nuove, anche quelle sapevano di macero castano come la pelle della poltrona. Niente da fare, ormai ce l’avevo nel naso; ebbi l’impulso di sfregarmelo con il polso, ma c’era quel bambino che mi fissava, un piccolo essere umano seduto rigido su uno sgabello attaccato alla parete opposta. Piantai i piedi a terra, mi ricordai che non potevo alzarmi, accavallai di nuovo le gambe.
Gli orologi più orrendi si trovano nelle sale d’aspetto degli studi medici. Sono quegli oblò asettici e metallici dal ticchettio irritante di meccanismo plastico scadente, numeri rossi, lancette nere, perennemente in ritardo di qualche centimetro. Le attese, pensai, vanno riempite, o è tempo che va a male e poi non ritorna, ed io non ho scelto di essere qui, per dirne una.
C’era Vitangelo Moscarda che mi chiamava dal fondo della borsa, ma preferivo ignorarlo. Ero ancora in riabilitazione emotiva dopo il primo capitolo di quel suo romanzo pericoloso. Non facevo che fissarmi allo specchio, nelle vetrine, sui finestrini delle auto, ovunque il mio riflesso potesse mostrarmi anche un solo barlume di ciò che potevo essere fuori da me, guardarmi guardare, vedermi con gli occhi di qualcun altro, vedere me senza più esserlo, quel me non più mio quando diventa tu. Ecco perché mi ero seduta su quella poltrona scomoda tanto lontana dalla finestra.
Neanche un mese prima ne avevo avuta una simile con Zeno Cosini. Il mio problema erano diventate le piazze. Era un’impresa ormai attraversarle senza pensare che stavo camminando e chissà come apparivo all’esterno! Ma lo storpio in piazza del Gesù era l’ostacolo più grande.
Se restava seduto, simil-dormiente e io di fretta tiravo dritto per l’università, magari neanche ci facevo caso. Ma quando si trascinava lamentoso aggrappato alla sua gruccia, tutto quanto inarcocchiato con una gobba che pareva una collina e la testa sulle ginocchia, che neanche zoppicava, sembrava fallisse ogni volta una capriola, ecco io allora pensavo, ma neanche cosciente, diciamo più che era una sensazione di cui però non mi accorgevo subito, mi pareva allora di dover provare anch’io a fare una capriola, e incespicavo l’aria fino alla fine della piazza. Poi con la stessa inconsapevolezza distratta mi rimettevo nel flusso della folla sana.
Alzai la testa e il bambino era sempre lì a fissarmi, con l’occhio vitreo di un’esistenza ancora in rodaggio. Avrà avuto 6 o 7 anni, mi venne da mostrargli la lingua, ma la madre era lì accanto che sfogliava una rivista. Di colpo si ricordò del suo bambino biondo e rigido sul piccolo sgabello lì accanto. Lui non smetteva un attimo di fissarmi, neppure per sbattere le palpebre, accecandomi col riflesso della luce elettrica sulle sue due biglie azzurre appena sotto l’immensa fronte. Allora anche la madre, in un lieve moto d’interesse, posò gli occhi su di me, senza nemmeno voltarsi… Toh! Lo stesso sguardo vitreo!
Pensandoci, ora, prima di Zeno c’era stato il principone di Salina. Per lui sorrido agli alani e li ritrovo nelle costellazioni, ma ho il timore di conservare resti di un passato di rimpianti mentre lotto contro una gioventù di rimorsi. Basta appena un assaggio di letteratura per iniziare ad accorgersi del tempo che passa e alzare più spesso gli occhi al cielo.
Poi la nuvola di smog di Calvino e l’irrimediabile ossessione per la polvere. Un pomeriggio d’estate, fasci di luce dalla finestra, milizie di pulviscolo ad invadere il campo.
«Guarda che ho trovato, dimenticato sull’ultimo scaffale della libreria!», gridava, inconsapevole.
Sedendosi sul letto con un libro sporco, che dico? nero!, tirò per aria una mischia di polvere in mulinelli convulsi, potevo vederla nitida, neanche si accorse del pericolo, rimase indolente a leggere. Ed io mi lanciai, sconvolta, con un lenzuolo come rete sulle coperte minacciate gridando «COPRITI! LA POLVERE! T’INVECCHIA!»
«Che dici?», mi chiese, senza alzare gli occhi e il dito grigio dalla pagina. Io caddi giù dal letto avvolta nel lenzuolo e rovesciai il caffè sul tappeto.
Tac. Tac. Tac. Un tempo monotono. Alle 6 di quel pomeriggio infinito il bambino e la madre erano scomparsi.
La mia ricevuta proclamava:
Martina Salvai, ore 15:00
Si rechi allo studio in anticipo per non perdere il suo turno.
Ormai non c’era più nessuno, sedili deserti, tende immobili, solo l’orologio e la sua eco, il telefono restava muto. Mi sporsi dalla poltrona e giù crepitii e scrosci, un po’ di plastica trasparente sgranava la spalliera, volevo la rivista rovesciata sul tavolino. Uno sforzo immane per non cedere alla seduta color tabacco, prima d’inabissarmi di nuovo, un colpo di tallone deciso mi spinse fino alla meta, come bottino di guerra portai via la rivista, un centrino ed un piatto d’argento. Gran fracasso, sfiatatoi, frane, smottamenti e poi silenzio, ero di nuovo seduta.
A guardar bene dovevo aver portato con me molto di più, una storia lontana trascinata via in quel moto di rivolta contro la forza di gravità, subito sedata in poltrona.
Esaminai per un po’ il centrino ingiallito dalla trama fitta, che cedeva da ogni lato. Poteva essere antico e di valore, o forse solo uno straccio. Lo misi su un ginocchio, sull’altro tenevo il piattino argentato. Ecco, era lì il vero tesoro: un cioccolatino, tre caramelle e due o tre nidi di polvere.