Agosto. Passeggiavo tra le stradine di Otranto, quando mi capitò tra le mani il volantino di una mostra fotografica. Si trattava di una mostra di Steve McCurry, era stata allestita nel castello aragonese della città. Ma io, allora, non sapevo neanche chi fosse. Forse, i miei occhi distratti erano stati raggiunti solo una volta dalla sua foto più nota, La ragazza afghana. Per questo decisi di andare. Ad attendermi oltre la soglia di quel castello, una sala riempita da uno spettacolare gioco di luci, ombre e collocazioni giuste. Primi piani di varia umanità affollavano le pareti. In un attimo avevo perso il mio sguardo negli occhi di tutti quei volti. Rimasi incantata e bramai di scovarne uno che mi comunicasse qualcosa in più. Lo trovai. Tra tutti quei volti, volti di bambini in guerra e donne piangenti, la mia attenzione fu attratta da una fotografia che probabilmente molti altri non avevano neanche notato. Era lì ad attendermi. Era “L’uomo coperto di polvere”. Mi pietrificai. Non riuscivo più a togliere lo sguardo dai suoi occhi, mentre i miei si riempivano di lacrime che distillavano colore. Guardai intensamente la persona che era con me e capì che, anche lui aveva riscontrato una certa familiarità in quel volto e in quegli occhi lucenti. Mi spostai. Decisi di uscire fuori. Forse era questione di suggestione. Sì, doveva essere così, pensai, mi stavo suggestionando troppo. Eppure, non riuscii ad allontanarmi abbastanza: dovevo rientrare. In ogni sala del castello salentino, ovunque mi mettessi, sentivo quegli occhi su di me. «Voglio sapere cosa c’è dietro quella foto, chi è quell’uomo, qual è la sua storia. Gli somiglia troppo». Decisi di tentare. Saltai da una libreria a un’altra per trovare un libro in cui fosse spiegata la storia di quell’uomo. Fu praticamente impossibile. Allora, cambiai strada: decisi di ricostruirla io. Decisi di creare una storia di un passato a me familiare e sconosciuto. Per prima cosa volli dare un nome a quell’uomo impolverato dai colori. E per un volto così non potevo che scegliere Amitola, un nome indiano che significa arcobaleno. Fu allora che vidi per la prima volta Amitola. Nei meandri della mia mente passeggiava un uomo nato nella povertà più assoluta, emarginato da tutti e privo di ogni cosa materiale. Un uomo che sin da ragazzo aveva deciso d’ingannare il tempo intrecciando fili di ferro. Presto, il mio Amitola scoprì che quel passatempo a cui si era dedicato in gioventù poteva diventare un vero e proprio lavoro. Le sue mani, infatti, sapevano ricreare singolari opere d’arte immergendo il ferro nel calore di sabbie colorate attraverso cui riusciva a plasmare e comunicare ogni sfumature dei suoi stati d’animo. Un giorno un turista rimase incantato dall’opere e dal talento di Amitola. Subito gli chiese di poterne acquistare una, ma Amitola gliela regalò. L’uomo, incredulo e entusiasta, decise di proporre quella piccola statuina ad un suo amico che allestiva mostre. Fu un vero successo: alla mostra tutti chiedevano a chi appartenesse quell’opera, ma nessuno ebbe mai risposta. L’uomo allora tornò da Amitola chiedendogli di firmare l’opera e di andare con lui, promettendogli un lauto compenso. Ma Amitola rifiutò, dicendo di non voler rivelare la sua identità, che avrebbe continuato a vendergli delle statuine perché doveva sfamare la sua famiglia ma che non avrebbe mai lasciato la sua terra, perché senza le sue sabbie, in cui amava rotolarsi ogni sera a lavoro finito, non poteva vivere. L’uomo insistette molto, ma Amitola non si lasciò convincere. Le sue opere erano sempre più richieste, e tutti lo cercavano: così, Amitola decise di insegnare ad altri la sua arte. Creò una sua scuola le cui opere recavano la firma Rainbow. Poi, un giorno, Amitola si ammalò. Una grave malattia dovuta proprio alle sabbie da lui tanto amate che gli avevano ostruito le vie respiratorie. Poco prima di morire, però, volle spiegare ai suoi alunni perché aveva scelto di firmare le opere con la parola Rainbow. “Quando avevo la vostra età e non avevo nulla, provavo gioia solo quando vedevo l’arcobaleno che era capace di riscaldarmi dalla fame che pativo, capace di riscaldarmi il cuore e darmi la forza per vedere i volti scarni e sofferenti dei miei genitori. E così un giorno mentre lo guardavo creai la mia prima statuina e decisi di darle i colori dell’arcobaleno, così chiunque un giorno avesse guardato quelle statuine almeno per un istante avrebbe potuto dimenticare i suoi dolori e sorridere dinanzi all’armonia dei colori. Ho sempre intrecciato il ferro pensando di poter portare gioia a chi non ne ha. Continuate a farle voi per me. Donate allegria a chi è immerso nei dolori”. Dopo la sua morte, fu rivelata l’identità di quell’uomo che sapeva portare un sorriso nei volti di coloro che non hanno nulla. E dinanzi alla sua casa fu creata una sua statua piena di colori, così che tutti quelli che passavano di li, perdendosi tra colori e occhi stanchi, avrebbero potuto sorridere. Anche solo per un istante. Oggi. Fiera e paga del mio infaticabile Amitola, ho smesso di cercare la vera identità di quell’uomo.